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L'evoluzione dei porti e il nuovo rapporto con i territori

 



“Evoluzione e modelli di gestione dei porti”. Il libro di Sergio Prete, già presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, e da poco nominato commissario straordinario dell'ente colma un vuoto. Al di là dell’interesse specialistico per la materia, rappresenta un prontuario lineare ed esaustivo su ruolo e prospettive delle attività portuali italiane, tema sempre troppo poco dibattuto in relazione al peso del comparto per l’economia italiana. Il volume approfondisce, tra l’altro, l’evoluzione dei porti e del loro rapporto con il territorio, la loro funzione di interfaccia con il commercio internazionale, i differenti modelli di gestione portuale presenti Europa, analizzandone i punti di forza e debolezza. Esercizio, quest’ultimo, utile in vista di un dibattito sulla prossima riforma portuale destinato a lievitare. «L’idea nasce dall’esigenza di mettere a sistema il materiale raccolto per il corso di Mangement della Portuali presso l’Università degli Studi di Bari, fatto di articoli e pubblicazioni usciti su riviste nazionali e internazionali,» spiega Prete. «Nella stesura finale è stata riversata anche l’esperienza diretta accumulata nella gestione dell’AdSP del Mar Ionio e la frequentazione con alcune associazioni internazionali, a cominciare da ESPO. L’esigenza principale era anche quella di informare e di divulgare che cosa rappresenta un porto e quali sono le sue funzioni. Man mano sono stati inseriti anche altri argomenti di rilievo per il cluster come il percorso verso la sostenibilità ambientale e l’innovazione». 

Cosa sono oggi i porti? 
Il pensiero accademico arriva a classificare ben sei generazioni di porti, tenendo conto dell’evoluzione storica delle funzioni operative. Da tempo in collaborazione con SRM – Intesa San Paolo abbiamo adottato e adattato questo schema per individuare i caratteri peculiari dello scalo 6.0, quello che al di là delle caratteristiche tradizionali di regolazione e sviluppo dei traffici assomma su di sé tutta una serie di nuove tematiche che hanno che vedere con lo sviluppo dell’economia territoriale: l’internazionalizzazione, la presenza delle ZES e ZLS, ovvero quegli strumenti che permettono ad un territorio di diventare più attrattivo per gli investimenti internazionali, la sostenibilità ambientale, con la necessità di sviluppare nuove infrastrutture e servizi in linea con la transizione energetica, l’intermodalità, l’innovazione tecnologica. Insomma tutta una serie di vettori che convergono in un porto e lo rendono un centro propulsore di trasformazione del territorio che riesce a servire. 

A Taranto con il progetto FAROS il porto è diventato anche punto di riferimento per le start up… 
Al capitolo innovazione, proprio per la grandezza e l’eterogeneità del cluster che lo alimenta, il porto diventa luogo ideale per poter intersecare le esperienze industriali, logistiche, progettuali declinandole secondo lo spartito dell’innovazione dei processi e delle attività. Digitalizzazione, automazione, intelligenza artificiale posso essere considerati come dati acquisiti nel futuro del comparto. Partendo da questo assunto, sulla scorta di un Mou firmato nel 2021 con Rotterdam abbiamo lanciato, prendendo spunto dall’esperienza di PORT XL, ad oggi l'acceleratore più importante al mondo nel settore portuale e marittimo, il progetto FAROS che oggi è arrivato al quarto ciclo accelerazione delle startup, ispirando tra l’altro l’apertura di un secondo hub di questo tipo a La Spezia. 

È stato difficile perseguire questa particolare strada? 
L’iniziativa nacque in un momento di grande difficoltà, legato all’esplosione della crisi dell’ILVA. L’idea era di iniettare nel tessuto economico idee nuove, capaci di suscitare un po' di entusiasmo. È stato un capitolo importante ma difficile da realizzare. A differenza di Rotterdam, la cui natura giuridica permette in modo quasi naturale di creare società partecipate, essendo un ente pubblico non economico abbiamo dovuto girare a lungo alla ricerca di finanziatori. La svolta è arrivata con Cassa Depositi e Prestiti che ha permesso la nascita di FAROS nell’ambito della creazione della sua rete di acceleratori specializzati in Italia. 

Quanto inciderà la formazione del personale nello sviluppo dei porti 6.0? 
E’ una questione che a mio avviso va affrontata in modo celere e approfondito. Noi quest’anno siamo riusciti a far modificare dalla Regione il catalogo dell'offerta formativa relativa ai lavoratori portuali che non veniva aggiornata da decenni. È stato il frutto di un lavoro sinergico con istituzioni e sindacati ma è solo un primo passo. Come evidenziato nel libro stiamo affrontando anche su questo versante grandi trasformazione che riguarderanno anche il personale delle AdSP. Se tutti processi lavorativi andranno in direzione della digitalizzazione, dell’automazione o di un’integrazione sempre maggiore con l’AI avremo bisogno di professionalità per gestire queste innovazioni. Con la riduzione delle attività più tradizionali nasce dunque l’esigenza di dotarci di una programmazione pluriennale. Il che si scontra con la tendenza italiana ad affrontare le criticità con l’urgenza. Da noi proliferano i commissari straordinari, in altre realtà i piani trentennali. 

Quali spunti possono arrivare dal suo libro in merito al carattere della riforma? 
Da un’indagine condotta dall’ESPO sull’evoluzione degli enti portuali emergono tre modelli distinti: quello conservativo, quello facilitatore e quello imprenditore. Le prime sono le autorità portuali prevalentemente o interamente pubbliche; le seconde adottano il sistema misto come quello italiano: proprietà pubblica del demanio e privatizzazione delle operazioni portuali. Infine, l’ente imprenditore che, a sua volta, può essere diviso in due sotto-modelli: quello totalmente privatizzato o l’organizzazione cosiddetta corporatizzata, in SPA prevalentemente pubblica. Senza prendere posizione, dalla letteratura emerge come la maggior parte dei porti mondiali sta convergendo verso la corporatizzazione. Ovviamente, nel partire dai modelli tipizzati sarà necessario adeguare la nuova governance alla realtà del nostro paese. 

Come sarà caratterizzato il prossimo futuro dei porti italiani? 
Credo molto nell’incidenza del fattore energetico. Gli scali non vanno più pensati come solo luoghi di stoccaggio e fornitura di energia ma anche come centri per la sua produzione. Sotto questo aspetto le maggiori opportunità arrivano dallo sviluppo dei nuovi carburanti, dall’idrogeno all’ammoniaca. Certo, scontiamo ancora grosse difficoltà nella realizzazione dei relativi depositi ma bisognerebbe entrare nell’ordine d’idee di arrivare anche ad ospitare la parte industriale relativa alla costruzione degli impianti. A Taranto, nel segmento dell’offshore, siamo riusciti a insediare un’importante attività che sta producendo economia e posti di lavoro. 

Come giudica l’esperienza personale a capo dell’AdSP? 
Sono stati anni complessi che, dalla vicenda Evergreen alla crisi dell’ILVA, hanno visto il porto al centro di una serie di criticità. Sicuramente si sarebbe potuto fare di più e meglio ma siamo riusciti nonostante un contesto spesso drammatico a disegnare un futuro per lo scalo, portando traffici nuovi come quello delle crociere. Le ricadute non saranno immediate ma posso affermare con soddisfazione che abbiamo impostato una serie di attività, a cominciare dai due progetti comunitari sull’idrogeno, che possono fare di Taranto un laboratorio e un modello per tutto il Mediterraneo.

GG
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