Dragaggi, tra ostacoli normativi e innovazione
Intervento a cura del Contrammiraglio (Cp) aus. Rosario Marchese
Consigliere del Ministro per la Protezione civile e le Politiche del mare
Questo approfondimento esamina le principali difficoltà operative e normative legate al dragaggio portuale in Italia, concentrandosi sulla gestione dei sedimenti, sulle opportunità offerte dall’economia circolare e sulla necessità , più volte evidenziata dall’attuale Governo nel "Piano del Mare", di elaborare un “Piano Nazionale dei Dragaggi” per armonizzare il quadro normativo.
Iniziamo col dire che, le criticità nelle operazioni di dragaggio portuale non sono soltanto di natura burocratica, ma si traducono in un reale svantaggio competitivo per il sistema portuale italiano. Il dragaggio dei fondali, infatti, assume importanza per la tutela della sicurezza della navigazione e salvaguardia della vita umana in mare; per una migliore fruizione di aree portuali con una conseguente intensificazione dei traffici commerciali, economici ed una importante ricaduta in termini di competitività internazionale nel settore dello Shipping.
Inoltre, il mancato sviluppo di tecnologie di riutilizzo e trattamento dei sedimenti limita la possibilità di valorizzare i materiali dragati come risorsa ed impedisce ai porti italiani di inserirsi pienamente nei processi dell’economia circolare, rendendo il settore portuale italiano meno sostenibile e competitivo rispetto a quello di altri Paesi europei.
L’attuale quadro normativo rallenta la filiera del dragaggio, compromettendo la capacità dei porti di rispondere prontamente alle esigenze del mercato globale. In un contesto economico in cui la rapidità e la flessibilità delle infrastrutture portuali rappresentano fattori strategici, il ritardo normativo rappresenta di converso, un freno all’espansione commerciale.
Le ragioni della esiguità delle attività di dragaggio sono da ritrovare, come avviene frequentemente in Italia, nella complicata coesistenza di aspetti di carattere ambientale, sociale e giuridico, di non facile comprensione e di complicato coordinamento. Dragare significa liberare i fondali marini, fluviali e lacustri di materiale di vario tipo (anche contaminato) e che spesso ammonta a diversi milioni di m3.
La qualità , il trattamento e la ricollocazione del materiale dragato sono da sempre, a tutte le latitudini e non solo in Italia, oggetto di dibattito e molte volte supportati da presupposti scientifici, che si fondano su studi ed analisi, in base a quella che viene definita sindrome NIMBY (acronimo per Not In My Back Yard), ovvero la preconcetta opposizione ad interventi che possano impattare sul contesto socio-ecologico circostante.
In Italia, determinate tensioni vengono amplificate dalla particolare situazione nazionale, distinta rispetto a quella di tanti altri Paesi nei quali, il dragaggio è un’attività di tipo ordinario e non soggetta a particolari critiche o opposizioni. La nostra Nazione è ad altissima vocazione turistica e marittima. Dispone di circa 8.000 km di coste ed è il Paese europeo con il maggior numero di acque di balneazione, circa ¼ del totale di quelle europee, delle quali il 94% sono di eccellente qualità . Si evidenzia che in Italia vi sono 58 porti di “rilievo nazionale” che contribuiscono significativamente al PIL nazionale.
Il “Rapporto Unioncamere 2024” sull’economia del mare attribuisce al sistema marittimo un valore aggiunto complessivo di circa 64,7 miliardi pari a circa il 3,7% del Pil e una occupazione di 1 milione di addetti pari al 4% dell’occupazione italiana. Siamo al centro del Mediterraneo, che rappresenta uno dei più ricchi ed importanti ecosistemi al mondo, con un numero di specie che rappresentano quasi l’8% della biodiversità marina globale ed è ai primi posti al mondo per tutela dell’ambiente e della biodiversità . Posizione sancita a livello costituzionale mediante la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione avvenuta con legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, in cui viene riconosciuto espresso rilievo alla tutela dell'ambiente, sia nella parte dedicata ai Principi fondamentali, sia tra le previsioni della cosiddetta Costituzione economica.
L'estrazione dei materiali sabbiosi dai fondali marini rappresenta un’attività potenzialmente ad alto rischio ambientale, in quanto può favorire la diffusione di contaminanti accumulati nei sedimenti nel corso del tempo. Ma, va detto anche che un ostacolo rilevante alle operazioni di dragaggio risiede nella gestione dei sedimenti dragati che in base alla normativa attuale, se non pericolosi e se rispondenti a specifici requisiti, possono essere movimentati e utilizzati senza essere considerati rifiuti, come riportato nell’Art. 185 comma 3, del Testo Unico Ambientale (D.lgs. 152/2006).
In molti specifici casi però, i sedimenti vengono considerati rifiuti, con conseguenti obblighi di trattamento e smaltimento che ne aumentano i costi e complicano l’operatività , specialmente per i porti che rientrano tra i SIN.
I SIN, acronimo di “Siti di Interesse Nazionale”, sono aree sul territorio italiano identificate dal Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) come: “particolarmente contaminate o a rischio ambientale significativo”. La loro bonifica è considerata prioritaria per la tutela della salute pubblica, dell'ambiente e del territorio. Nei SIN vi è presenza di inquinanti pericolosi, come metalli pesanti, idrocarburi o diossine che generano rischi per la salute umana e per gli ecosistemi con evidente impatto su aree strategiche, come corsi d'acqua, falde acquifere o zone urbane.
La gestione della bonifica nei SIN è coordinata direttamente dallo Stato, attraverso il Ministero o enti ad esso delegati e vengono coinvolti enti locali ed aziende responsabili.
Ad oggi, ci sono decine di SIN in Italia, il loro monitoraggio e risanamento è una delle principali sfide ambientali del Paese. Esempio tra tutti è l'attività industriale dell'acciaieria ILVA a Taranto fortemente inquinata.
Per quanto riguarda invece i dragaggi nei siti non “SIN”, il Decreto Ministeriale 15 luglio 2016, n. 173, definisce le modalità tecniche per autorizzare l’immersione deliberata in mare dei materiali dragati.
In sintesi, i sedimenti possono essere riutilizzati per ripascimento costiero (ad esempio per il rifornimento delle spiagge) solo se classificati come “non pericolosi” (categorie A e B). I sedimenti contaminati, invece, devono essere trattati o smaltiti in impianti specializzati, generando ulteriori costi e complesse questioni logistiche.
L'attuale sistema di classificazione distingue i percorsi di caratterizzazione in base alla tipologia e al volume del materiale dragato. Questo comporta la necessità di valutare i sedimenti e sottoporli a iter burocratici complessi per definirne la classificazione e la destinazione, causando significativi ritardi nei tempi di approvazione e riducendo l'efficienza delle operazioni portuali.
Altra criticità riguarda la gestione dei “fanghi dragati” che devono spesso essere smaltiti come rifiuti, poiché le loro caratteristiche di pericolosità impediscono il riuso. Nel caso di sedimenti contaminati, è obbligatorio il test di cessione per prevenire rischi di contaminazione delle falde acquifere, di cui al D.lgs. 13 gennaio 2003, n. 36 “Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti”, che: …” garantisce una progressiva riduzione del collocamento in discarica dei rifiuti…. al fine di sostenere la transizione verso un'economia circolare…”.
Per una maggiore comprensione di chi legge, il “test di cessione”, consiste nel valutare se un materiale solido, come i sedimenti dragati o i rifiuti, possa rilasciare sostanze potenzialmente inquinanti quando viene a contatto con l'acqua. Il test consente di simulare le condizioni in cui il materiale potrebbe contaminare le falde acquifere (le riserve naturali di acqua sotterranea) e verificare se e quanto il materiale rilascia contaminanti, come metalli pesanti, idrocarburi o altri inquinanti, nell'acqua.
L'obiettivo è garantire che l'uso o lo smaltimento del materiale non comprometta la qualità delle acque sotterranee, prevenendo rischi per l'ambiente e la salute pubblica.
Questo obbligo comporta un aggravio di spese per quelle zone portuali che non dispongono di risorse sufficienti per sostenere l’intero processo, trasformando quello che dovrebbe essere un intervento di manutenzione essenziale in un costoso e complesso iter di smaltimento. I fanghi contaminati devono quindi essere gestiti in discariche apposite o in casse di colmata per impedire la contaminazione di acque superficiali e sotterranee.
Le normative in materia richiedono documentazione e tracciamento, complicando ulteriormente il procedimento e rallentando le operazioni. Inoltre, la mancanza di risorse adeguate e di impianti attrezzati comporta spesso il trasferimento dei sedimenti in impianti ubicati a distanza considerevole, incrementando così i costi e gli impatti ambientali legati al trasporto.
I sedimenti derivanti dal dragaggio, quando non pericolosi per l’ambiente marino (classificati nelle categorie A e B), possono invece essere esclusi dalla normativa sui rifiuti, aprendo la strada a usi utili come il ripascimento delle spiagge (per la categoria A) o l’immersione controllata in mare. Ma quando queste condizioni non sono rispettate, entra in gioco un sistema normativo articolato, spesso complicato da interpretare e applicare.
In questi casi, i sedimenti possono essere trattati come:
• sottoprodotti, pronti per un nuovo utilizzo;
• rifiuti recuperabili per diventare End of Waste (cioè materiali non più classificati come rifiuti);
• rifiuti da smaltire negli impianti autorizzati.
Tutto questo è regolato dall’articolo 184-quater del Testo Unico Ambientale, un pilastro per promuovere l’economia circolare nel settore dei materiali dragati.
Tuttavia, la normativa ha subito diverse modifiche, alcune delle quali, introdotte nel 2021 per semplificare e incentivare il riutilizzo di questi materiali.
L’articolo 184-quater (T.U.A.) stabilisce che i sedimenti dragati possono cessare di essere classificati come rifiuti se vengono sottoposti a specifiche operazioni di recupero (come la cernita o la selezione) e rispettano condizioni ben precise ovvero:
1. Non superare i limiti di contaminazione previsti per l’ambiente;
2. Avere una destinazione finale certa e un utilizzo che non comporti rischi ambientali, ad esempio per le acque sotterranee;
3. L’utilizzazione deve essere accompagnata da una dichiarazione di conformità , presentata alle autorità competenti.
Le modifiche apportate dalla L. 267/2021 che modifica l’art. 184 quater del TUA, con l’introduzione dei commi 5-bis e 5-ter, avevano ampliato le possibilità di utilizzo dei sedimenti, consentendone l’impiego anche in ambienti terrestri o in specifici cicli produttivi. Si attendevano inoltre norme tecniche per disciplinare queste opzioni, ma l’iter ha incontrato ostacoli.
Nonostante gli intenti di semplificazione, la normativa ha sollevato molte domande operative anche da parte degli stakeholder ad esempio:
• È possibile recuperare i sedimenti direttamente in un ciclo produttivo o in un sito di utilizzo? E in tal caso, come va gestita la dichiarazione di conformità ?
• Dove possono essere temporaneamente depositati i sedimenti in attesa delle verifiche necessarie?
• Come deve avvenire il loro trasporto: serve sempre il formulario di identificazione rifiuti (FIR) o ci sono eccezioni?
• Quali sono i siti finali ammessi per il loro utilizzo, oltre alle casse di colmata?
Da ultimo, la Legge 2 febbraio 2024, che converte il Decreto-Legge 9 dicembre 2023 n. 181, ha introdotto importanti modifiche in vari ambiti, principalmente riguardanti energia, sostenibilità e semplificazioni normative.
Tra queste modifiche, è stata abrogata una specifica disposizione, il comma 5-ter dell’art. 184-quater del Testo Unico Ambientale (TUA) che regola il tema della cessazione della qualifica di rifiuto ("End of Waste"), cioè il processo attraverso il quale un rifiuto, dopo opportuni trattamenti, viene considerato un prodotto riutilizzabile.
L'abrogazione del comma 5-ter potrebbe implicare l’eliminazione di un vincolo o una procedura specifica precedentemente prevista in questa normativa. Questo potrebbe essere legato a un’intenzione di semplificare o uniformare le regole a livello nazionale. Sarà comunque fondamentale un maggiore coordinamento tra lo Stato e le Regioni per garantire regole chiare e condivise, in grado di valorizzare al meglio i materiali dragati senza compromettere l’ambiente.
Senza dubbio alcuno, ritengo che il Dipartimento delle politiche del mare istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con legge 12 luglio 2024, n. 101 con il compito di curare l’attuazione delle funzioni di indirizzo, coordinamento e di promozione dell’attività strategica del Governo con riferimento alle politiche del mare, affronterà in modo coordinato ed efficiente il tema della semplificazione delle procedure necessarie per procedere agli interventi di dragaggio dei fondali portuali, attraverso una organica normativa nazionale preordinata all’approvazione di un apposito Piano nazionale dei dragaggi sostenibili, giusto quanto già disposto dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, recante la «Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure».
Appare quindi appropriato che le politiche di coordinamento e programmazione necessarie per mettere a sistema tutte le azioni, laddove richiedano interventi trasversali tra più amministrazioni, possano trovare un giusto punto di riferimento nel Comitato Interministeriale per le politiche del mare (CIPOM).