Hong Kong è ancora la porta per il mercato cinese
Mettere a disposizione spazio, servizi e competenze: 1.300 metri quadri di uffici nel cuore di Hong Kong. Puntando non solo ad un mero “sharing space” ma alla costituzione di una community a supporto delle aziende italiane. L’ultima iniziativa di Riccardo Fuochi nasce come risposta alla congiuntura e diventa un’opportunità per chi vuole cimentarsi con la “porta d’ingresso” al mercato cinese: «d’altronde, la logistica è l’arte dell’ottimizzazione delle risorse».
Come nasce questa iniziativa?
Il mercato ad Hong Kong con il post Covid ha conosciuto una certa evoluzione. Complice la flessione del turismo con maggiore intensità di spesa si è persa l’effervescenza degli ultimi anni, con rallentamenti nel settore del retail di lusso e della ristorazione di alto livello. Insieme a tutti gli altri fattori di incertezza geo-economica si è ristretto anche lo spazio operativo che rendeva necessario un certo di tipo di organizzazione in loco. Da qui l’esigenza di doversi affidare maggiormente a servizi esterni. La nostra community da una risposta a questa situazione: offre spazi per uffici ma anche, e soprattutto, attività di logistica, compresa quella più elementare come le re-location, e una gamma di prestazioni fornite da un network di professionisti e operatori locali a supporto dell’apertura di nuove aziende, nel marketing, ed altro.
Quale tipo di opportunità cercate di cogliere?
Intanto Hong Kong è ancora uno dei centri della globalizzazione. Per quanto quest’ultima sia in discussione, alla ricerca di equilibri diversi rispetto al passato, l’area metropolitana è il trampolino di lancio per l’import/export legato allo sterminato mercato cinese, con grandi potenzialità di crescita per chi vuole confrontarsi con questa realtà. In più, si assiste ultimamente ad un ritorno di tante attività che prima si erano allontanate per altri lidi. Con il rallentamento dell’economia cinese tante aziende avevano preso la strada di Singapore o dell’Inghilterra. Oggi il fenomeno ha cambiato verso anche in virtù dell’espansione in atto del mega progetto della greater bay area.
Cosa suggerisce a chi volesse puntare su Hong Kong?
Rispetto al passato e ai timori di un assorbimento da parte del resto della Cina non c’è nulla di nuovo. Hong Kong continua a godere delle sue peculiarità amministrative che ne fanno un centro logistico unico in Asia, a partire dalla posizione geografica, quasi baricentrico tra Singapore e Tokyo. I livelli semplificati di burocrazia e fiscalità rendono il trasporto delle merci assolutamente fluido. A Hong Kong, inoltre, puoi trovare le risorse umane che servono per affrontare al meglio il grande salto verso l’interno del paese.
Quali sono i settori che presentano maggiori opportunità?
Parlare del Made in Italy, la moda, ad esempio, mi sembra fin troppo facile. Ciò che però andrebbe colmato è il gap con i grandi player logistici che già operano in Cina e che hanno ulteriormente rafforzato la loro presenza dopo il boom dell’e-commerce. In generale, sotto questo aspetto pur potendo contare su un know how di altissimo livello la presenza italiana è sottostimata, anche a causa di una conoscenza scarsa dei prodotti proposti al mercato. Tra l’altro all’interno della stessa Cina la base qualitativa delle attività logistica sta crescendo esponenzialmente: magazzini moderni, tecnologie digitali, automatizzazione stanno cambiando il quadro operativo.
In che misura le politiche di sostenibilità stanno modificando il quadro economico?
Anche in Cina il tema è stato sposato pienamente. E, si badi bene, non tanto per le preoccupazioni per l’inquinamento, che pure sono fondamentali, ma perché la sostenibilità è stata individuata come leva per acquisire un vantaggio competitivo a livello di business. Il caso delle auto elettriche è di scuola. Questo atteggiamento riguarda anche il comparto dei trasporti e della logistica: tutte le nuove iniziative guardano alla sostenibilità.
Come giudica il nuovo accordo sulla BRI firmato dall’Italia?
A parte il punto di vista politico, cambia poco rispetto al precedente memorandum. Da parte italiana c’è da denunciare una sostanziale incapacità di cogliere la grande occasione legata all’iniziativa strategica di Pechino. Con il memorandum precedente abbiamo firmato un’intesa che garantiva alla Cina una grandissima visibilità sullo scenario internazionale ma, allo stesso tempo, siamo stati incapaci di trarne vantaggio, chiedendo delle contropartite che non sarebbe nemmeno stato tanto difficile ottenere.
A cosa si riferisce?
Un esempio banale. L’import di prodotti del “made in Italy” necessita per varcare il confine cinese di una serie di certificazioni che spesso complicano la vita alle aziende, comportando un aggravio sotto l’aspetto dei tempi e dei costi finali. Sarebbe bastato chiedere l’accettazione delle certificazioni fatte dagli enti europei per aprire immediatamente il mercato ai prodotti italiani. Ad ogni modo la BRI comunque sta andando avanti, nonostante tutto. E in particolare per le iniziative che riguardano il Centro Asia si potrebbero aprire spazi importanti per le nostre società.
Crede ancora nella bontà dell’iniziativa?
Al netto delle contrapposizioni geopolitiche, delle guerre economiche e di tutti i fenomeni di “aggiustamento” della globalizzazione, non è auspicabile e nemmeno possibile, segmentare eccessivamente il commercio internazionale. Capisco le preoccupazioni americane rispetto alla portata della BRI ma, considerando quello che sta accadendo nel Mar Rosso, non sarebbe stato preferibile avere una via terrestre alternativa più sviluppata? Quattro o cinque linee ferroviarie, anziché due? Le grandi connessioni tra l’Ue con l’Asia non mi sembrano concettualmente sbagliate. Poi, certo, serve trovare il giusto equilibrio per sviluppare le relazioni in entrambe le direzioni. E qui, troppo spesso l’Italia pecca di provincialismo.
Oggigiorno si fa un gran parlare di Africa…
E a ragione. Però, anche in questo caso, non dobbiamo rinunciare ad un sano realismo. Va bene il Piano Mattei e i suoi obiettivi ma presentarlo come un’alternativa ai rapporti con Far East credo sia una mera mistificazione. L’Africa rappresenta senza dubbio il futuro economico ma oggi è costituta da 54 paesi spesso instabili e problematici. Giusto spenderci energie e attenzioni ma da qui a fare a meno della Cina per precipitarsi verso l’altra sponda del Mediterraneo mi sembra decisamente azzardato. Bisogna rimboccarsi le maniche e continuare a spiegare bene la situazione. Proprio per questo prossimamente organizzeremo un incontro pubblico per illustrare le opportunità che un porto come quello di Genova può cogliere guardando a realtà in pieno sviluppo come Hong Kong e Shenzhen.
Giovanni Grande