MARZO 2024 PAG. 51 - Italia-Cina “pasticcio” sul Bri ma prospettive sono attraenti
È stato presentato nella sala conferenze parlamentare Matteotti di palazzo Theodoli a Roma il Rapporto 2024 “Possiamo fare a meno della Cina?” del Centro Studi sulla Cina contemporanea, think tahnk presieduto dall’ex ambasciatore della Repubblica italiana presso la Repubblica popolare cinese, Alberto Bradanini. Il documento analizza l’evoluzione dei rapporti tra il gigante asiatico, il nostro paese e l’Europa alla luce della crescente contrapposizione tra Pechino e il campo occidentale con una serie di analisi incentrate sui temi dell’interdipendenza economica, il cosiddetto “grande Sud globale”, lo sviluppo dell’Asean.
Il mercato italiano, nel contributo a firma Bradanini, “sebbene tuttora interessante, presenta tuttavia caratteristiche di fungibilità per Pechino, a sua volta consapevole delle competenze europee (e non del governo di Roma) su temi importanti quali lo status di economia di mercato, le procedure antidumping, gli accordi e i contenziosi commerciali e altro ancora”.
In merito agli investimenti italiani in Cina si rivela come il loro ammontare (al netto di una certa opacità informativa) dovrebbe aggirarsi intorno ai 16/18 mld di euro. “Quasi tutti green-field, nell’arco di alcuni decenni essi hanno generato in Cina centinaia di migliaia di posti di lavoro. Il loro flusso è oggi in forte calo, anche se qualche impresa ha ancora convenienza a spostare laggiù la produzione”. Nel complesso il fenomeno della delocalizzazione produttiva sembra destinato a declinare “a causa dell’aumento dei costi (lavoro e servizi), della competitività locale, di un’imposizione fiscale non più incentivante come un tempo, di una maggiore attenzione cinese alla protezione ambientale e dell’appeal di paesi alternativi, oltre che per le difficoltà delle nostre imprese a reperire capitali”. Sul fronte degli investimenti in Italia “secondo Forbes, nel 2019, essi si aggiravano intorno ai 15,3 mld di euro”. Da allora, il loro ammontare dovrebbe aver raggiunto i 18/20 miliardi, concentrandosi su merger and acquisition di società esistenti, tecnologia e sbocchi di mercato, senza creare nuovi posti di lavoro, seppur con qualche eccezione (Huawei a Segrate, il centro design per auto a Torino e altri minori). “Cresciuti lentamente negli anni, e dopo l’impennata del quadriennio 2013-2017, anche questi flussi vanno ora esaurendosi”. Un affievolimento dovuto in parte anche ad una mancanza di programmazione sul lato delle infrastrutture logistiche, in particolar modo quelle marittime. “Non si è mai giunti all’identificazione di un porto-hub per accogliere le merci in entrata destinate all’Italia e all’Europa, sebbene le portacontainer cinesi transitino davanti alle nostre coste per proseguire verso Gibilterra e il Nord Europa. È vero che la Cina ha legami di lunga data con i porti nordeuropei, dove confluiscono ingenti flussi di import-export che generano elevate economie di scala. Ciononostante, a date condizioni, Italia e Cina trarrebbero entrambe ingenti benefici nel servire l’Europea centro-meridionale e orientale attraverso i porti italiani più vicini ai mercati di destinazione”.
In questo contesto sta pesando anche il “pasticcio” sul memorandum firmato e poi non confermato sulla BRI. L’Italia, avrebbe dovuto puntare a creare le condizioni per una collaborazione industriale e di lungo respiro con la Cina, “partendo dall’infrastrutturazione dei paesi intermedi tra Estremo Oriente ed Europa Occidentale”. Un obiettivo “mai divenuto realtà, per inerzia, inadeguatezza e distacco da parte italiana”. “Del resto, alla luce delle critiche che la firma di tale Accordo aveva generato da parte di Stati Uniti e partner europei, il MoU è stato vissuto dall’Italia come una colpa, invece che come una straordinaria opportunità per costruire una relazione privilegiata con l’universo Cina”.
In alternativa all’uscita dall’accordo si sarebbe potuto ricorrere ad un suo aggiornamento. In che modo? Con l’inserimento di clausole vincolanti per la parte cinese sullo squilibrio commerciale e con la collaborazione infrastrutturale sulla Via della Seta. “In un’ottica ideale, tenuto conto dei flussi, degli investimenti e della sofisticata tecnologia di cui oggi la Cina dispone, la cooperazione bilaterale dovrebbe svilupparsi sulle nuove tecnologie, l’automazione, l’ambiente, l’aerospazio, la sanità, l’agricoltura sostenibile, la mobilità, l’interconnessione, l’urbanizzazione innovativa e le smart cities, le nuove energie, la robotica, la ricerca applicata e altri settori di punta. La strada resta in salita, ma le prospettive decisamente attraenti”.