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APRILE 2022 PAG. 12 - Assonave, urge recuperare la nostra autonomia strategica

 

 

Le serie storiche sulla produzione del settore navalmeccanico risalgono alla fine dell’Ottocento. La ricca messe di dati a disposizione permette di osservarne l’evoluzione e i fenomeni che l’attraversano. Come la ciclicità, ad esempio. «Ogni trent’anni circa si registra un picco di ordini. L’ultimo risale al 2007 e, con ottima probabilità, il prossimo si assesterà attorno al 2035». Andrea Piantini, Direttore Generale di Assonave, fa molto affidamento sulla statistica economica. È anche dai “freddi dati” che si possono ricavare importanti indizi sulla storia recente e sulle prospettive future. Come quella che lo porta a leggere il presente difficile del comparto alla luce di quello che, scandendo le parole, considera l’imperativo da seguire per il futuro: au-to-no-mia stra-te-gi-ca. 

Come orientarsi in questa lunga sequela di dati. Da dove partire?  

Il 1980. L’apice di un decennio in cui, con una quota di mercato che sfiora il 50%, l’Europa occupa il ruolo di leader incontrastata nell’ambito delle costruzioni navali mondiali. Da allora si registra una perdita media di un punto percentuale per ogni anno nei confronti della concorrenza asiatica. Fino al 2021 dove si accontenta di una piccola nicchia che, a seconda delle fonti, oscilla tra l’uno e il tre per cento. È questa la linea di partenza per qualsiasi tipo di ragionamento.    

Quali sono stati i fattori di questa erosione progressiva?

Come per ogni fenomeno le cause sono innumerevoli. La principale è che in questi anni si è verificato nell’indifferenza generale uno scontro tra sistemi-paese che hanno agito all’interno di un quadro di regole non omogeneo. Prima il Giappone, poi la Corea, infine la Cina hanno sovvenzionato in maniera massiccia la loro navalmeccanica creando prima una capacità produttiva enorme e successivamente sostenendola attraverso pratiche di dumping continuativo e strutturale. Anche il questo caso le cifre non mentono.

Dia pure i suoi numeri…

Basta confrontare l’andamento dell’inflazione mondiale a partire dal 2000 ad oggi con l’indice dei  prezzi delle navi. A dispetto dell’aumento delle dimensioni, di tecnologie più avanzate, di una complessità strutturale sempre maggiore, e nonostante il recente sostanziale aumento dell’ indice dei prezzi nave del 2021, dovuto prevalentemente all’esplosione della domanda di Portacontainer e di LNG Carrier, da 2000 a fine 2021 l’indice dei prezzi delle navi è cresciuto del 30% in meno rispetto al tasso di inflazione mondiale. O riteniamo che in 20 anni ci sia stato un incredibile aumento di produttività da parte dei cantieri navali, oppure è chiaro che ci troviamo di fronte ad un mercato drogato. 

Questioni di regole, diceva prima…

Anche in questo caso c’è una data precisa. Il 2004 è l’anno in cui in Europa si è concluso il processo di abolizione  degli aiuti di stato alla cantieristica navale, la cui fase prodromica è iniziata nel 1998. Ironia della sorte, è proprio nel 2004  che la Cina sorpassa il vecchio continente in termini di produzione e  e consegne. Di fatto adottando le “sue” regole la Cina dal 1998 ad oggi ha più che decuplicato la sua produzione, mentre l’Europa la ha più che dimezzata. E tenga conto che la prima assunzione di consapevolezza del grave problema generato alla cantieristica navale Europea dal dumping asiatico viene fatto dalla Commissione europea nel  1988. Da allora si apre pero’ un lungo capitolo di occasioni perse per arrivare a soluzioni in grado di incidere effettivamente sulle pratiche commerciali asiatiche.    

Cosa è venuto a mancare a livello europeo e nazionale?  

C’entra, di sicuro, un’adesione fin troppo letterale ai principi del libero mercato, sistema economico più che condivisibile, ma fintanto che tutti producono e vendono rispettando le stesse regole. Solo da noi invece  i prezzi di mercato devono avere un senso rispetto ai costi di produzione, mentre  dall’altra parte si gioca un’altra partita, e il risultato non può essere quello della quasi cancellazione di un intero settore industriale in Europa. Diverse fonti Americane, tra cui il National Bureau of Economic Research, stimano in circa 170 miliardi di Euro l’ammontare dei sussidi da parte di Pechino solo dal 2006 al 2018: È chiaro che le carte erano truccate. In questo modo il sistema cinese è riuscito artificialmente a mantenere basso il costo delle unità navali, favorendo cosi’ un mercato dei noli piu’ bassi,  che, a sua volta, è riuscito a sostenere l’obbiettivo strategico di farsi “fabbrica del mondo”.  

Le conseguenze sull’industria europea?

Abbiamo perso il mercato bulk, cargo, quello container e buona parte dell’offshore, compreso il drilling, tra i segmenti più remunerativi, e stiamo per perdere anche quello dei traghetti. L’ultima consegna di traghetti in Europa è prevista nel 2023. Rimane la crocieristica, i segmenti minori dell’offshore, la nautica,  e l’inland navigation che però appartiengono a una logica diversa da quella più propriamente industriale. Il problema vero è che insieme a queste produzioni rischi di svanire un capitale di competenze tecniche che sarà difficilmente recuperabile un domani.   

In che modo invertire la rotta?

Va recuperato il concetto di autonomia strategica. Servono, prima a livello italiano, poi europeo, scelte di politica industriale ben ponderate. In un mondo in cui l’85% dell’export viaggia via mare l’Europa, tuttora il maggior mercato del pianeta, deve garantire la libertà ai suoi armatori di poter consegnare le merci. Soprattutto alla luce delle sempre più frequenti tensioni geopolitiche.

C’è un parallelismo con la dipendenza dal gas russo?  

Dipendere da un singolo fornitore, geopoliticamente a noi lontano, non è mai la scelta migliore. Cosa succederebbe, solo per mera ipotesi scolastica, nel caso del precipitare della situazione a Taiwan? Consegnarsi nelle mani di Pechino per la realizzazione di molte tipologie di navi  sarebbe un errore clamoroso. Si ridurrebbero i margini di manovra così come sta succedendo per la Russia.

Vale anche per il settore militare?

Le tecnologie militari e quelle commerciali sono spesso condivise. Il “miracolo” di Fincantieri si basa proprio sull’equilibrio instaurato tra questi due poli che si alimentano vicendevolmente e sinergicamente. Il trasferimento tecnologico garantisce le alte performance sul mercato: navi commerciali tecnologicamente avanzate e navi militari con costi efficienti. Se viene a mancare uno dei due pilastri sarà difficile mantenere a lungo il controllo sui costi. Per non parlare dell’occupazione. Le conseguenze possono essere drammatiche. 

Quali le proposte avanzate da Assonave?

D’accordo con l’associazione europea di categoria, Sea Europe, crediamo sia necessario intraprendere logiche industriali differenti, che non possono che partire dalla  preferenza per gli interessi del sistema-paese. L’ideale sarebbe creare campioni europei in grado di eccellere sui segmenti produttivi più funzionali a garantire l’autonomia italiana, in particolare, ed europea, in generale. Stiamo premendo con Bruxelles per istituire un tavolo di lavoro dedicato ai problemi della navalmeccanica. Solo analizzando a fondo la situazione sarà possibile prendere le giuste contromisure.

A quali azioni dare la priorità?  

Intanto, andrebbero delineate le linee di prodotto fondamentali all’autonomia strategica Europea. Faccio un esempio legato all’attualità. In un momento in cui il trasporto di GNL diventa essenziale per garantire il riequilibrio del mix energetico e per diminuire la dipendenza dai gasdotti russi è chiaro che il settore delle unità gasiere, siano esse per il trasporto o il deposito, diventa centrale. Fatte le scelte di fondo, almeno nel breve periodo i segmenti strategici andrebbero favoriti adottando meccanismi di sovvenzione, o comunque di stimolo alla massimizzazione della loro competitività di lungo termine, onde contrastare quanto è stato fatto in Asia in questi anni. Nel contempo andrebbero sicuramente discusse e approvate delle linee per ottenere le condizioni per poter operare alle stesse condizioni di mercato, e, in caso di probabile opposizione da parte dei produttori asiatici rispetto alla creazione di meccanismi in grado di scoraggiare effettivamente la concorrenza sleale, valutare anche l’applicazione unilaterale di meccanismi di tutela dei produttori Europei  

Potrebbe non essere facile…

Non lo sarà. Anche perché il vero scoglio è legato al fatto che in ambito WTO le regole antidumping non sono applicabili al settore navalmeccanico, ed è dalla soluzione di questo problema che si dovrebbe partire. Eppure lo sforzo vale il risultato. Politiche industriali mirate potrebbero di certo favorire lo sviluppo delle tecnologie navali più avanzate in ambito digitale e green, garantendo il perseguimento degli obiettivi di decarbonizzazione. Gli stessi discorsi sulla necessità di una difesa europea comune, a seguito della tragedia in ucraina, potrebbero innescare un percorso virtuoso. Questo, non mi stancherò mai di ripeterlo, è il tempo dell’autonomia strategica.   

Giovanni Grande

 

 

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