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APRILE 2021 PAG. 22 - Zes italiane, sviluppo zavorrato da burocrazia e infrastrutture

 

 

Nel mondo a trazione maschile della logistica Valentina Di Milla ha scelto una delle nicchie più impervie. Tra le prime imprenditrici a occuparsi di ZES in Italia è Ceo di RALIAN Research & Consultancy, società di consulenza che opera nell’ambito dell’attrazione degli investimenti attraverso tutti i tipi di free zones e nella copertura con tax credit e contrattualistica per il settore cinematografico: “Connubio – assicura – molto meno inusuale di quanto sembri a prima vista”. Carattere determinato e appassionato: “Mi sforzo di portare il necessario tocco rosa in un mondo altrimenti monotono” è impegnata in una serie di progetti – dal ruolo nel Presidency Cabinet della Federazione Mondiale delle Zone Franche e delle Zone Economiche Speciali (FEMOZA) a quello di vice presidente della nuova sezione UCID Sud Pontino: “Puntiamo a incentrare la nostra azione sull’economia del mare e dell’ambiente in un territorio che, a ridosso della zona economica speciale campana, può fungere da snodo strategico tra il territorio nazionale e il Mezzogiorno”, al ruolo di Official delegate con il World Business Angel Investment Forum (WBAF), all’interno del quale come membro del “Global Women Leader Commette” si occupa, tra l’altro, del “gender gap” finanziario che rallenta lo sviluppo dell’imprenditorialità femminile – che conduce con piglio e coerenza. Le stesse caratteristiche che hanno portato la sua società ad aggiudicarsi la redazione del piano di sviluppo strategico della ZLS del porto e del retroporto di Genova e la portano ad esprimere un giudizio poco lusinghiero sull’esperienza italiana («almeno per quello visto fino ad ora») in tema di ZES.


Cosa non la convince?      
Recentemente ho paragonato le ZES italiane ad un razzo che deve partire verso la luna zavorrato con tre grosse portacontainer: la burocrazia che non allenta la sua morsa, la mancanza di attrattività – perché il credito d’imposta (solo con la legge di Bilancio 2021 è stata introdotta la riduzione del 50% dell’IRES per le imprese che investono nelle ZES) non è la soluzione adatta – la scarsa dotazione infrastrutturale. Tutti elementi che impediscono al progetto di prendere il volo. Sulla scorta delle esperienze raccolte a livello internazionale dovrebbe essere chiaro che non si può parlare di ZES se non nell’ambito di un determinato cluster: hanno bisogno di specializzazione, altrimenti non servono. 


Quale dovrebbe essere la prospettiva giusta?    
Le best practices insegnano una cosa: i progetti hanno funzionato laddove sono stati strutturati in vista di un obiettivo. Non ha senso delimitare una zona specifica nella speranza che dentro possa entrarci di tutto. Specie se si considera la situazione attuale del Mezzogiorno, cui si è cercato di far indossare un abito fuori misura. Bisogna partire innanzitutto da quello che c’è già. 


Vale a dire?    
C’è un paradigma tradizionale costituito dalla filiera “produzione di reddito – consumo – risparmio – tempo libero, ovvero vacanze, turismo, cultura”, che va invertito. La cultura genera turismo, produce reddito, che mette in moto consumo, entrate erariali, risparmio. Non è tempo libero, ma industria, cluster. Senza voler togliere niente alle esperienze industriali del Sud, che vanno tutelate e valorizzate, la vera ricchezza di questo territorio sta nel suo patrimonio culturale e paesaggistico. È da qui che bisognerebbe partire per produrre ricchezza. È un cluster che va specializzato. Puntare solo al manifatturiero mette in evidenza un grave errore di prospettiva. Gli esempi sparsi per il mondo lo dimostrano: esistono ZES di tutti i tipi, comprese quelle cinematografiche, o per meglio dire, dedicate ai media, e rappresentano spesso un punto propulsivo anche per le attività non direttamente associate. 


Quali sono i maggiori punti di criticità dell’esperienza italiana?  
Manca una legge ad hoc di riferimento. Abbiamo solo due articoli inseriti nel Decreto Mezzogiorno del 2017 ai quali sono stati aggiunti successivamente singole disposizioni contenute in leggi omnibus oltre a un DPCM nel 2018 che hanno dato luogo a un sistema di modifiche e integrazioni: una precarietà normativa costante che rende il quadro poco intellegibile. Poi c’è il laccio burocratico. Qui la ZES potrebbe giocare un ruolo importante per sperimentare nuove soluzioni. Sperimentare soluzioni istituzionali innovative in un ambito più ristretto per poi adattarle al contesto nazionale.  


In conclusione, le ZES andrebbero ridisegnate anche sotto l’aspetto geografico?

Ogni specializzazione rappresenta una possibilità di reddito e di ricchezza. Le ZES vanno basate su questo elemento e non perché un determinato territorio debba essere accontentato. La mia idea è quella di avere ZES su tutto il territorio nazionale, modulate però diversamente con caratteristiche adeguate in relazione alle vocazioni produttive dei territori e in linea, caso per caso, con il rispetto dei vincoli europei in materia di aiuti di Stato. Con un disegno complessivo che guardi principalmente alle dotazioni infrastrutturali: i collegamenti con le global value chain devono seguire un approccio sistemico, cominciando dal valorizzare secondo una logica di insieme, le connessioni strategico funzionali tra le piattaforme logistiche del nord e del sud della penisola.

Giovanni Grande

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