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DICEMBRE 2020 PAG. 48 - Regional Comprehensive Economic Partnership


 

L’offensiva economica cinese 

Nei primi anni del nuovo secolo Parag Khanna, un giovane politologo indiano, naturalizzato americano, esperto in relazioni internazionali, si è domandato quale fosse il futuro delle nazioni e se nel nuovo millennio, caratterizzato dalla globalizzazione e dal sistema economico neoliberista, aveva ancora senso suddividere il mondo tramite gli Stati nazione. Naturalmente a questa domanda fa immediatamente eco quella relativa ai ruoli dei confini nazionali. Un quesito che ha portato il giovane geopolitico a formulare l’assioma, d’indubbio interesse, secondo il quale la forza di una nazione è determinata dalla sua capacità d’essere connessa. Questa, molto stimolante affermazione, ci introduce ad un mondo suddiviso quindi in spazi connessi e non connessi, dove il libero scambio diviene il metro di valutazione non solo della ricchezza dell’area oggetto di studio, ma rileva anche il potenziale esogeno d’influenza delle realtà politiche, economiche, commerciali ed in fine sociali. In fondo, rileva l’autore di “Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale”, lavoro che ha suscitato grande interesse tra gli esperti del settore e non solo, il mondo è connesso solo per un 10%, ma proprio in questo piccolo spazio si è concentrata la maggior parte della popolazione mondiale. In pratica nel mondo connesso i confini nazionali hanno un valore residuale, mentre rimangono importanti, o per meglio dire, imprescindibili in quella parte di mondo scarsamente collegata. Una teoria molto stimolante ed interessante, ma solo parzialmente condivisibile, che consentirà, in qualche modo di darci degli stimoli interpretativi di ciò che sta accadendo in Oriente. Indubbiamente quando Saint-Simon espresse il parere che il progresso tecnologico, unitamente all’industrializzazione e allo sviluppo economico doveva essere la precondizione per la prosperità di tutti non avrebbe mai pensato che tali elementi venissero poi adoperati per aumentare la propria dimensione geopolitica, il proprio prestigio internazionale ed in fine come strumenti validissimi di guerra economica. Probabilmente lo stesso dicasi per Keynes quando sostenne che il libero commercio avvicina i popoli e allontana la guerra. Anche in questo caso è difficile credere che l’insigne economista britannico avrebbe mai pensato che proprio lo svilupparsi del free trade sarebbe stato la causa di importanti idiosincrasie tra nazioni e potenze. Invece proprio la recente realizzazione di un’area economica a guida cinese RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) alza drasticamente l’asticella del confronto-scontro tra regione asiatica e gli Stati Uniti d’America. In pratica con la firma di questo trattato di libero scambio la Cina si pone alla guida di una struttura economica composta da 14 paesi asiatici e non, ossia di una struttura che rappresenta il 30% non solo dell’economia, ma anche della popolazione mondiale. Una zona di libero scambio capace di interessare circa 2,2 miliardi di consumatori. Indubbiamente un durissimo colpo per il prestigio politico ed economico a stelle e strisce. In sostanza è la risposta dell’antico Impero Celeste alla guerra dei dazi doganali iniziata da Trump. Una controffensiva dalle grandi implicazioni politiche che in una certa misura sopravanzano addirittura quelle economiche, poiché nella famigerata lista delle nazioni aderenti compaiono alcune nazioni storicamente alleate di Washington come il Giappone, il Sud Corea, le Filippine, ma anche la Nuova Zelanda e l’Australia. Insomma con la creazione di quest’area di libero scambio la Cina rilancia non solo la sua figura di paese economicamente emergente, ma anche la sua leadership in quell’area così strategica per la politica estera ed economica americana. Un duro colpo al prestigio americano che vede con grande preoccupazione l’avvicinamento tra Cina ed i suoi alleati storici in quell’area. Probabilmente Clausewitz avrebbe sostenuto che la Cina con la RCEP era riuscita a scoprire e colpire il “Schwerpunkt” americano approfittando anche, se non soprattutto, del processo di asianizzazione e logisticazione dell’economia mondiale. Credo fermamente che si commetterebbe un errore madornale se si leggesse la realizzazione di tale area come mera risposta economica alla guerra dei dazi. Proprio l’esperienza dei TTP ci dimostra che certe dinamiche hanno bisogno di tempi abbastanza lunghi e di una lunga programmazione. Ciò porterebbe a pensare che la Cina è riuscita a concretizzare un progetto politico ed economico studiato e pensato da diverso tempo. In fondo non bisogna mai sottovalutare il fatto che la Cina è figlia della sua cultura millenaria dove il fattore tempo ha un valore ed è percepito in maniera assai differente dal mondo occidentale. Forse proprio a questo si riferiva quasi profeticamente Napoleone Bonaparte quando ebbe a suggerire “lasciate dormire la Cina, poiché al suo risveglio il mondo tremerà”. In pratica si potrebbe o dovrebbe pensare che la realizzazione della RCEP non è altro che il normale approdo della politica economica e di potenza asiatica che la Cina sta conducendo sin dall’inizio del secolo. È bene sottolineare che con questo sistema, evitando abilmente possibili attriti nell’area, la Cina ha inglobato e si è oggettivamente posta alla guida, perlomeno quella economica, di tutte le nazioni che fanno parte dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations). Un seme che l’antico Impero Celeste ha piantato da diversi anni e che pazientemente è stato capace di far sbocciare e crescere fino a farlo divenire pianta robusta e fruttifera. Sin dai primissimi anni del nuovo millennio Pechino ha promosso ed incentivato l’immigrazione in Mongolia, lì, come accadrà poi in seguito in altre aree del mondo, l’immigrato cinese ha iniziato ad inserirsi nel tessuto sociale e produttivo del paese creando forti relazioni economiche con lo stato di provenienza. Questo ha fatto sì che i tanti e molto consistenti investimenti provenienti dall’antico impero della dinastia Ming non fossero percepiti come l’acquisizione da parte di una potenza straniera, anzi sono stati incentivati da parte del governo mongolo. Al momento non è scorretto poter affermare che la Cina controlla i settori fondamentali dell’economia di quel paese. È presumibile che a Pechino si sia studiato l’ideatore della Real Politick, Ottone von Birsmarck, secondo il quale chi possiede la borsa detiene anche il potere. In pratica la Mongolia non è stata conquistata dalla Cina, ma più semplicemente è stata comprata da quest’ultima. Nella stessa direzione va letta l’immigrazione delle popolazioni della regione dell’Harbin che per oltre dieci anni si e riversata nella desolata e scarsamente popolata steppa Siberiana. Un esodo di oltre 60.000 persone all’anno per più di due lustri. Ora in quella zona è comparsa una fiorente industria del legname la quale esporta proprio in Cina quasi la totalità della propria produzione. Naturalmente il governo cinese ha provveduto ad implementare considerevolmente la rete logistica tra queste due aree, così come nel caso mongolo. In pratica la Cina, meglio di qualsiasi altra potenza, ha maggiormente colto le dinamiche geopolitiche dell’immigrazione, che si caratterizza altresì come arma asimmetrica anche se in questo caso ha agito come elemento esogeno di soft power, e della logistica come strumento geopolitico per penetrare e consolidare le relazioni tra due potenze. Contestualmente a questi due processi Pechino ha provveduto a rinsaldare i propri rapporti con il Pakistan tramite la realizzazione della strada ferrata che va dalla provincia cinese dello Xinjiang al porto di Gwadar sull’Oceano Indiano. Un indubbio duplice colpo poiché attraverso la realizzazione di questa imponente opera Pechino non solo rafforza le relazioni tra queste due nazioni isolando la riottosa India unico paese dell’area avverso all’egemonia economica e politica cinese, ma protegge e consolida la linea di rifornimento del petrolio proveniente dal Mar Arabico. Le motivazioni che spinsero alla progettazione di questa immane linea ferroviaria vivevano dalla preoccupazione da parte del governo cinese d’essere troppo dipendenti dal trasporto marittimo del petrolio. Naturalmente anche questa opera risale, almeno concettualmente, ai primissimi anni dell’attuale secolo. Oltre quindi ad espandere la propria influenza a Nord con Mongolia e Russia ad Ovest con il Pakistan il governo cinese ha sviluppato una serie di strategie economiche molto elastiche nel sudest asiatico. Per esempio con paesi come il Laos, la Cambogia e il Vietnam, Pechino ha provveduto a fornirgli per anni materie prime a bassissimo costo e in qualche caso ad un prezzo inferiore a quello d’acquisto cinese. Questi tre paesi scarsamente industrializzati e praticamente sprovvisti di molte materie prime hanno realizzato la propria industria e la propria economia sulla base delle forniture e dei rapporti con la Cina, creando così una sorta di dipendenza endemica della propria struttura industriale ed economica dal colosso asiatico. Naturalmente il tutto è stato prontamente consolidato dall’ampliamento di una consistente rete logistica tra queste nazioni e la Cina. Per cui la dipendenza di queste nazioni dal rinato Impero Celeste credo che si possa definire totale. Naturalmente questa strategia economica eccezionalmente elastica è stata adoperata, anche se in modo diverso e con risultati inferiori, con le altre realtà nazionali dell’area. A questo punto appare del tutto evidente che la realizzazione dell’area di libero scambio economico asiatico non sia frutto dell’esigenza del momento, ma il consolidamento di una vera e propria strategia di lungo periodo economico, politico e militare posta in essere dalla Cina che sin da inizio secolo. In questa dinamica le nazioni storicamente alleate degli Stati Uniti, quali Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Sud Corea e Filippine erano poste davanti alla scelta o rinunciare alla partecipazione all’area di libero scambio con pesantissime ripercussioni in ambito economico, industriale e sociale o aderirvi. Credo che in questa dinamica abbia prevalso naturalmente la real politick. Non sarà sfuggito che la realizzazione della RCEP possa nascondere l’insidia maggiore per l’economia americana, ossia che quest’accordo sia un abile stratagemma per accelerare il processo di sostituzione del dollaro statunitense con lo Yuan cinese nella moneta di scambio asiatico. Una possibilità che ogni giorno diviene sempre più concreta.

Alessamdro Mazzetti

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