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FEBBRAIO 2020 PAG 38 - L’Italia nell’era della logistica come strumento strategico







La logistica come funzione centrale delle dinamiche economiche del XXI secolo chiama tutto il sistema Paese ad una analisi degli scenari globali. La competitività economica non può più essere delegata (e relegata) alle sole competenze delle aziende e delle associazioni di settore ma necessità di una piena collaborazione da parte della politica nazionale. di fronte al mondo che cambia a velocità esponenziale emerge l’esigenza di una piena collaborazione tra mondo produttivo, mondo logistico e apparato politico-amministrativo.

Ivano Russo (Confetra). La connettografia e i percorsi delle supply chain internazionali. La funzione economica che caratterizza il XXI secolo è la logistica. E il sistema economico italiano, rispetto a questo dato, va ripensato evitando discussioni e confronti a “compartimenti stagni”. La riarticolazione dei rapporti degli stati si sta manifestando sotto varie forme: dalla BRI alla rotta artica, dalla lotta per il 5G alla recente costituzione del mercato unico africano il focus riguarda la gestione dei flussi di informazioni, servizi e merci. «L’Italia è posizionata in modo irrilevante dal punto di vista economico e insufficiente per quanto concerne l’analisi. L’opzione è rimanere una piccola commodity territoriale a livello microregionale o ripensarsi come hub logistico globale». L’invito è quello ad uscire dalla «campana di vetro» e costruire un’alleanza tra logistica e manifattura, sull’esempio di chi si è posto alla guida del processo. “Dietro al progetto della rotta artica da 28 miliardi di euro la Cina fa logistica ma anche industria: i primi paesi dell’area in cui ha investito, con acquisizioni a partnership strategici, sono stati Finlandia e Svezia”. E se è vero che la competitività non passa solo ed esclusivamente da rotte e infrastrutture non ci si può sottrarre dalle opportunità che stanno creandosi a pochi chilometri dalla penisola. «La Cina si è occidentalizzata, riproponendo per l’Africa il modello di “fabbrica del mondo”. E’ qui che si stanno ricostruendo le nuove filiere dell’automotive, dell’agrifood, della moda. Un’occasione per il nostro sistema di proporsi come punto di riferimento per la lavorazione di ultimo miglio». Da queste considerazioni la necessità per industria e logistica di ripensarsi reciprocamente per evitare l’isolamento. «Di fatto siamo tagliati fuori dalla BRI ferroviaria: con un sistema polverizzato di 6 milioni di PMI o si mette mano a una diversa organizzazione degli interporti e degli spazi retroportuali, si comincia a ragionare su processi di integrazioni o contratti di rete, o si perde il treno della modernità».   

Lucio Caracciolo (Limes). Di chi è il Mediterraneo?  Il Mediterraneo è al centro di un nuovo gioco egemonico che mette in discussione le tre regole d’ingaggio basilari costituite da pace, sicurezza e libertà di navigazione. In questo contesto l’Italia risulta un «territorio agito e non attore», immobilizzata da una scarsa capacità di analisi e iniziativa ben testimoniata dal memorandum firmato con i cinesi sulla BRI. «Un ko tecnico che se da una parte non si è tradotto in nessun vantaggio concreto derivante dalla partnership con Pechino dall’altra ha indispettito gli USA». Ulteriore prova: «la ricerca ventennale dei cinesi di un porto in Italia, mai individuato», che si traduce in un dato di fatto: «le vie terrestri della BRI passano al di sopra della penisola mentre per quelle marittime manca ancora una sbocco». Frutto, anche, della sottovalutazione della nuova cifra della competizione geoeconomica: «le potenze si stanno strutturando come capitalismo di stato». «Le compagnie marittime cinesi sono una ramificazione del potere statale e non bastano le singole iniziative delle AdSP in mancanza di una spinta coerente e di un disegno unitario da parte del governo italiano». In questo vuoto emergono attori e situazioni inedite: «L’Iran, attraverso il suo impero informale che va dall’Afghanistan alla Siria e al Libano, è pienamente un paese mediterraneo con interessi nell’area mentre Gibuti, unica base cinese estera ufficiale, diventa il vero confine esterno di quello che fu il mare nostrum». Se gli Usa hanno aperto vari fronti con Teheran, Mosca e Pechino è anche per assicurarsi il controllo di queste rotte strategiche, attraverso uno strumento, le sanzioni economiche, che sortiscono effetti paradossali: «da una parte compattano il nemico, dall’altro indeboliscono gli alleati». D’altro canto l’esempio del progetto TRIMARIUM, avanzato dalla Polonia e fortemente sostenuto da Washington evidenzia bene l’attuale “liquidità” della strategia americana. «Nato con l’obiettivo di mettere in relazione le infrastrutture del Mar Baltico, del Mar Nero e dell’Adriatico, non vede la presenza dei tre paesi principali che insistono sull’area: ovvero Germania, Italia e Turchia».

Alessia Amighini (ISPI). I rami della BRI. Focus Adriatico/Balcano. Il vantaggio geografico che vanta l’Italia nella nuova distribuzione dei traffici internazionale è solo potenziale. «Non siamo baricentrici nelle rotte, non nelle infrastrutture, non nella logistica internazionale. Guardiamo ai flussi nel Mediterraneo come una torta da spartirci, alimentando un gioco tra singole località dimenticando che la penisola è defilata rispetto alle direttrici che contano, quelle orizzontali che da Suez passano per Gibilterra». I rami verticali, quelli attraverso cui potremmo servire i mercati europei, sono ancora marginali e rischiano di rimanerci sia perché mancano le infrastrutture sia per l’incapacità di elaborare una visione d’insieme della posta in gioco. «Per geografia e morfologia abbiamo difficoltà a intercettare i TEU che arrivano dal Far East per instradarli via valichi. Ma l’ostacolo maggiore è rappresentato dalla Germania che è su questo campo un nostro concorrente diretto». E dove non arriva la concorrenza c’è appunto l’incapacità di uno sguardo strategico. «Le rotte mediterranee rischiano di fermarsi prima di Trieste, i Balcani sono diventati di nuovo un’area contesa. È quella la strada scelta dai cinesi per superare l’inefficienza delle linee per Rotterdam». In questo caso si sconta anche una miopia continentale. «Inutile giudicare il progetto che considera il Montenegro come porta di accesso per l’Europa centrale solo sulla base dell’efficienza e della sostenibilità economica: si dimentica che le infrastrutture rappresentano il volano dello sviluppo e non il contrario». È sullo scardinamento di queste “convinzioni poco fondate” che bisogna lavorare. «Così come è concepito il memorandum sulla BRI è assolutamente inutile. È arrivato il momento di guardare alla presenza cinese unendo i punti, non concentrandoci solo sugli accordi bilaterali. Pechino pensa per disegni geografici ambiziosi, produce visioni d’insieme. Dobbiamo scegliere dove andare. Se limitarci ad essere un mero cuscinetto tra una relazione formale con la Cina e l’alleanza con gli americani».

Andrea Giuricin (Università Milano – Bicocca). La (re)irruzione della ferrovia nei traffici a lunga distanza. La ferrovia sta recuperando una specifica dimensione geopolitica candidandosi a diventare spina dorsale della logistica del futuro. A corroborare questo dato il peso preponderante del ferro nella strategia BRI, gli investimenti cinesi in Africa (il collegamento Gibuti – Addis Abeba, tra gli altri), l’interesse crescente a far parte della partita di paesi come Russia e Bielorussia. «I volumi e il valore attuale dei traffici sui collegamenti Europa - Cina sono ancora piccoli, dell’ordine rispettivamente dell’1 e del 2%. Ma i collegamenti ad alta capacità realizzati tra le aree costiere e l’interno della Cina potrebbero cambiare la situazione sfruttando a pieno il potenziale di questa modalità di trasporto: più veloce della nave, meno cara dell’aereo, maggiormente rispettosa dell’ambiente». Peserà sullo sviluppo dei prossimi anni la capacità di trovare una nicchia di mercato adatta e di sviluppare efficienti connessioni intermodali. Sotto questo aspetto «manca una visione del decisore politico anche a livello europeo». «L’Ue ha investito sui singoli corridoi ma rimane aperta la questione delle frontiere». 11mila leggi complessive, frutto di differenti sistemi normativi, diverse tecnologie, difficoltà linguistiche quando si superano i confini (a differenza del sistema avio): tutti elementi che impediscono la costituzione dei treni “lunghi e pesanti”. «Gli USA sono stati in grado di creare un sistema ferroviario nazionale e, infatti, la loro quota merci è del 46%. La questione va affrontata in modo serio affinchè il ferro possa ritornare ad essere la modalità di trasporto più efficiente». In che modo? Mettendo fine ad una eccessiva concentrazione di un mercato dove i cosiddetti “incumbent” statali raggiungono i tre quarti del totale. «In Italia qualcosa è stato fatto: lo testimoniano l’andamento del settore, con una crescita complessiva del 4-5% negli ultimi anni, e le performance positive delle aziende private. Ma anche qui vanno prese decisioni politiche, ad esempio in tema di riduzione del pedaggio, in grado di stimolare il comparto». 

Massimo Deandreis (SRM). Lo shipping non è un’isola. Nel 2019 Suez ha superato il miliardo di tonnellate di traffico confermando il Mediterraneo come baricentro dei traffici marittimi internazionali e la salute del modello “economia di scala” che alimenta la corsa al gigantismo navale. «Secondo Alphaliner 133 nuove portacontainer nella fascia 10-23.000 TEU saranno lanciate entro il 2022, 45 delle quali nella fascia 18-23.000 TEU». Considerando che la redditività di una nave da 23mila TEU è garantita dallo stivaggio di un carico medio (15mila TEU) si consolideranno le rotte caratterizzate da più fermate, comprese quelle che dalla Cina attraverseranno l’Atlantico, via Suez e Gibilterra, fino agli USA, per proseguire via ferrovia. «Il gigantismo alimenta così nuovi modelli di business, determinando una maggiore concentrazione del mercato». Una centralità mediterranea, con Suez vero e proprio cuore della BRI marittima, che non esclude la possibilità di alternative, già in via di realizzazione. Tra queste la rotta artica, «adatta però a determinate tipologie di navi e ad attività che vedono convivere sinergicamente trasporti ed esplorazione di risorse»; l’opzione ferroviaria, con il progetto di una linea che attraversa la penisola arabica o quella che partirebbe da Haifa, attraversando il territorio israeliano; la stessa BRI terrestre, «non strutturalmente in concorrenza con le linee marittime». Come garantire la preminenza nella gerarchia dei porti del Mediterraneo? Un’occasione potrebbe essere rappresentata dalle ZES, strumento che ha prodotto grandi vantaggi in realtà vicine come Tangermed che sono salite prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni. «Le attuali 5.400 Free Zone impiegano tra i 90 e i 100 milioni di lavoratori diretti. Ma la semplice istituzione di una ZES non è garanzia di successo. Il solo vantaggio non basta. Bisogna saper combinare, come nel caso scuola di Tangermed, insediamenti produttivi, ricerca, logistica interconessa, infrastrutture».

Mario Mattioli (Confitarma). Shipping e Green New Deal. La morfologia della penisola, con la parcellizzazione dell’offerta portuale, impedisce all’Italia di sfruttare le “economie di scala”, annullando il vantaggio geografico della prossimità a Suez rispetto al Nord Europa. «Se il totale della merce trasportata in Italia è di poco inferiore a quella del solo porto di Rotterdam è perché è più difficile cogliere i vantaggi della concentrazione. Ma non si tratta solo di eccessiva estensione delle coste: c’è un tema generale che riguarda il costo dei servizi all’approdo che incide sulle scelte delle compagnie e che non possiamo più far finta di non conoscere». Se le proiezioni al 2030 indicano un importante aumento del traffico marittimo – con una domanda che si confronta con un’offerta di stiva in continua crescita (ad oggi 2mild di tonnellate) – va affrontata anche la criticità del gap infrastrutturale che, paradossalmente, rende più conveniente per una parte delle merci italiane bypassare la penisola per sbarcare nel Northern Range. «Si tratta di 70 miliardi di euro spesi dal sistema manifatturiero italiano che procurano un mancato gettito perché scelgono un altro gateway». Una diseconomia che non possiamo permetterci e che chiama in causa anche la mancanza di una governance salda. «Il problema non è sapere dove vogliamo andare: su quello ci sono idee valide in quantità.
Piuttosto, fatta una scelta, manca la continuità di indirizzo politico che combinata con procedure burocratiche obsolete produce ritardi nelle riforme necessarie oltre ad impedire il completamento di grandi opere indispensabili per il sistema Paese». Sulle sfide future, in primis la questione ambientale e l’implementazione del Green New Deal, è auspicato un «maggiore dialogo a favore dello sviluppo dell’intero sistema.
A livello mondiale bisognerà lavorare per dimezzare l’attuale livello di emissioni del comparto dello shipping entro il 2050: significa efficientare dell’80% l’attuale livello di una nave in funzione dell’incremento dei volumi».

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