GENNAIO 2019 PAG. 20 - Rotta artica, si gioca la partita per il suo sviluppo e controllo
Così come gli ippocampi trainavano nel corteo marino il carro del dio Poseidone il primo secolo del nuovo millennio viene trainato dalla sua acclarata dipendenza dal mare. Non è un caso, infatti, che esso sia stato denominato il secolo della Blue Economy. Nome affascinante e d’impatto che sottolinea e sintetizza le tante dipendenze della nostra società dall’ambiente marino. Indubbiamente lo sviluppo tecnologico ha facilitato moltissimo la modalità di trasporto marittimo. Oggi le navi, grazie all’invenzione dei container e alla realizzazione di unità gigantesche, trasportano da sole quello che una volta veniva trasportato da intere flotte. L’uso dei container ha consentito, inoltre, non solo la riduzione delle operazioni di carico e scarico sulle banchine ma anche, e soprattutto, la realizzazione di reti intermodali con un abbattimento dei costi per la ridistribuzione delle merci. Da soli questi elementi basterebbero a giustificare la dedica del nuovo millennio al mare.
In realtà vi sono altre motivazioni, di natura energetica. Con il progredire della ricerca scientifica e tecnologica è ormai possibile estrarre idrocarburi a profondità mai raggiunte prima, anche a bassissime temperature. La continua necessità di energia ha poi fatto si che le nazioni sviluppassero sistemi propulsivi a gas liquido più facile da trasportare, da raffinare e sicuramente meno inquinante.
È indubbio quindi che il rapporto con il mare, il suo libero accesso e la capacità di controllare le sue rotte sia un elemento d’indiscussa priorità. Una necessità ben compresa anche dalla Cina, la quale decisa a giocare un ruolo da protagonista nell’economia e nella politica mondiale, si è dotata delle strutture indispensabili per trasformarsi da potenza terrestre e regionale in grande potenza navale e internazionale, o più semplicemente da potenza tellurocratica in talassocratica. Così la Cina di Xi Jinping ha lanciato la sua sfida alle potenze navali e mercantili del mondo creando una struttura efficientissima di trasporto e sviluppo lungo una rotta che va dal Mar della Cina fino oltre il Mediterraneo centrale: la famosissima Belt and Road Initiative (BRI).
Il successo dell’iniziativa cinese è dovuta ad un insieme di innumerevoli di fattori tra cui l’alleanza commerciale con innumerevoli Stati dell’Asia centrale, lo sviluppo massivo della flotta (sia militare sia commerciale), la realizzazione di una collana di isole artificiali e, naturalmente, il raddoppio del canale di Suez che consente ora anche il passaggio di navi di grande tonnellaggio.
Naturalmente il dinamismo cinese non è stato motivo di preoccupazione solo per gli Stati Uniti d’America, quasi costretti a concentrare il grosso delle proprie forze navali nel sud del Pacifico, ma anche e soprattutto per la Russia. Putin teme che la realizzazione della BRI, o meglio dell’antica Via della Seta, come la chiamò per primo il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, non sia solo il sistema per rilanciare economicamente e commercialmente l’economia cinese, ma anche il modo ideato da Pechino per aumentare la propria influenza in tutto il territorio euroasiatico.
La Russia, ripresasi dalla caduta del muro ed intenzionata a ripercorrere l’antica politica estera di prestigio internazionale ha visto nell’antico alleato il rivale più accanito e pericoloso. Non è un caso che nell’ultima decade si sia giocata, tra Pechino e Mosca una interessantissima partita a scacchi, tesa a fortificare le rispettive posizioni e i propri insediamenti portuali nel Mediterraneo. Per cui se Pechino rileva aliquote importanti dei porti di Haifa, Pireo, Trieste, Ambali, ed altri, la Russia consolida le proprie posizioni nel Mar Nero, crea basi militari e commerciali a Tartus e a Jableh e Sebenico (con una fantasiosa operazione finanziaria) e stipula sin dal 2015 con i governi egiziano, cipriota e libico un accordo per l’utilizzo dei loro porti.
È indubbio quindi che la riapertura di Suez, il gigantismo navale, il controllo delle rotte e dei punti d’approdo, l’accesso a giacimenti di gas ha reso la situazione internazionale eccezionalmente fluida tanto da portare ad una pericolosa contrapposizione due colossi come Cina e Russia proprio nel Mediterraneo. È bene evidenziare che la grande assente in questo frangente è proprio l’UE incapace di sviluppare una propria politica commerciale, energetica, ma soprattutto mediterranea, che avrebbe in qualche modo potuto giocare un ruolo fondamentale nella stabilizzazione dell’area. In più, proprio a causa della necessità da parte delle nazioni di sfruttare l’ambiente marino che molti dei paesi costieri hanno istituito, o stanno per farlo, le ZEE (Zone Economiche Esclusive). Questo fenomeno, secondo alcune stime, porterà alla nazionalizzazione di oltre 147 chilometri quadrati di spazio marino, ossia quasi un terzo della superficie terrestre. Un aumento così considerevole di aliquote di mare nazionale comporterà inevitabilmente delle significative modifiche del codice della navigazione e di quello internazionale, oltre che una recrudescenza dei contrasti tra paesi rivieraschi confinanti. Un esempio lampante lo offre proprio l’apertura della rotta Artica che assume la fisionomia di una risposta russa all’intraprendenza cinese oltre che come vera e propria strategia politica ed energetica. Uscita da lunghi anni di recessione economica dopo la caduta del muro di Berlino, Mosca, con il conseguente sgretolamento del sistema di difesa degli stati satelliti, ha recentemente recuperato un certo grado di assertività internazionale.
Una volta consolidata la propria posizione nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale, essendo di fatto l’unica potenza rimasta a contrastare l’espansionismo cinese in quel quadrante, ha rilanciato con estrema forza ed energia la propria leadership euroasiatica adoperando quella rotta dei ghiacci che ha la peculiarità di unire, in spazi brevi, il porto di Vladivostok ai porti dei paesi scandinavi e quindi a quelli europei. In pratica, la rotta Artica si configurerebbe come una sorta di Velikij Sibirskij Put’ del mare (ossia “la Gran Via Siberiana”), come molto probabilmente l’avrebbe chiamata Sergej Jul’evič Vitte. In realtà, non si tratterebbe altro che l’antica rotta interna militare adoperata dalla marina sovietica durante la guerra fredda.
La novità rilevante sta nel fatto che grazie al repentino scioglimento dei ghiacci (i geografi più ottimisti hanno stimato che entro il 2035 il processo dovrebbe essere terminato, mentre per altri la data andrebbe anticipata ai primi anni venti) la navigazione è possibile senza l’ausilio delle navi rompighiaccio. In questa dinamica e con le nuove tecnologie estrattive Putin ha puntato molto sull’Artico sin dall’inizio del nuovo millennio. Consapevole che le rotte si controllano inevitabilmente tramite i porti, i quali devono essere difesi e manotenuti, sin dalla fine della prima decade del 2000, ha investito enormi quantità di denaro per rilanciare la flotta da guerra e la riapertura di numerose basi militari.
In quest’ottica, per controllare meglio l’ingresso in quei mari ad esclusivo esercizio russo, Putin ha realizzato una base aerea a Nagurskoye, più vicina al Polo Nord che alla penisola di Kola. Quindi prima ancora che il colosso energetico russo Gazprom investisse quantità enormi di danaro per l’installazioni di impianti estrattivi, il Cremlino aveva già potenziato il dispositivo di sea denial. È bene sottolineare che dopo il consolidamento dell’apparato logistico, navale e militare la Russia si è dedicata allo sfruttamento di quei spazi marini, così ricchi di risorse energetiche, entrando in una serie di conflitti con le nazioni confinanti. Proprio la ricchezza di quelle acque e la possibilità di realizzare le ZEE ha portato l’Alaska, la Groenlandia, il Canada, la Norvegia e Danimarca ad una serie di contrasti e contenziosi con la Russia, la quale considera quella aree una sorta di mare clausum. In questa dinamica oltre a rafforzare le basi e la marina militare la Russia ha potenziato anche il corpo della Guardia Costiera per un maggior controllo non solo sulle flotte mercantili, ma anche su quelle militari.
Naturalmente, come diceva Napoleone, la geografia è destino, per cui è impensabile che la Russia possa perdere il controllo di una rotta che in fin dei conti costeggia per migliaia di chilometri le sue coste nazionali. Essa può contare sui porti di Vladivostok, Murmansk ed Arkangels’k. A questi bisogna poi aggiungere Sabetta. Questo insediamento ha rappresentato una sfida vinta dalla Russia: in tutti i sensi. Il progetto risale al 2012 e lo staff d’ingegneri aveva avvisato Putin che per tutta una serie di motivazioni sarebbe stato quasi impossibile realizzare il sito di estrazione del GNL e relativo porto poiché il sito si trova nella Russia nord occidentale, nella penisola di Yamal. Grazie ad un investimento di circa 27 miliardi di dollari e alla ferma determinazione del premier russo di mettere a sistema uno dei più importanti giacimenti gassiferi, l’insediamento, contro ogni previsione, è già operativo da più di un anno grazie anche a grossi investimenti cinesi, creando un vero e proprio asse economico-finanziario nell’Artico. Paradossalmente, proprio le due potenze emergenti in forte competizione per il predominio della heartland makinderiana e per quella mediterranea ora sono alleate nelle fredde acque del Nord. Tale fatto non solo dimostra come bisognerebbe tramutare il postulato di Bismarck secondo il quale la politica è l’arte del possibile, ma i tempi cambiano, in un più moderno e attuale: la politica è l’arte dell’impossibile.
Da sottolineare come gli investimenti cinesi per l’insediamento ammontino a quasi il 30% (China National Petroleum Corporation poco più del 20% e Silk Road Fund per oltre il 9%). Non mancano comunque investimenti da parte di paesi Nato come la Francia (Total 20%). La russa Novatek detiene il pacchetto di maggioranza con il 50,1%. Il sito di Yamal è già in grado di produrre 17 milioni di tonnellate di gas annui, mentre le stime di agenzie russe prevedono di giungere molto rapidamente a 40 milioni di tonnellate annue. Tale incremento, con il conseguente consolidamento della NSR (Northern Sea Rout), consentirebbe di coprire le ingenti richieste non solo dei paesi asiatici, ma anche di quelli europei, come dimostrerebbe la forte richiesta d’incremento di gas liquido tramite il mar Baltico della Germania alla Russia.
Con il nuovo insediamento nell’artico la Russia ha aumentato la propria esportazione di prodotti petroliferi dell’8% in solo un anno mentre l’Europa continua ad essere la maggior importatrice di tale prodotto. Questi successi hanno convinto il governo di Mosca a sviluppare e realizzare nuovi siti estrattivi come quello bloccato da diversi anni di Shtokman, a nord-est di Murmansk nel Mare di Barents dove si stima la presenza di circa 4 trilioni di metri cubici di gas liquido e quello nella Penisola di Gydan, nel Mar di Kara. Progetto più volte rinviato a causa delle difficili condizioni climatiche. La creazione di questo sito comporterebbe un’ulteriore incremento di LNG russo in Europa sfruttando l’asse Shtokman - Murmansk – Vyborg - Greifswald.
Il perdurare delle sanzioni europee alla Russia se da un lato ha bloccato la possibilità d’investimento da parte delle aziende e delle nazioni UE, dall’altro mantiene aperte ampie ed interessanti possibilità d’investimento economico - commerciali per i restanti paesi asiatici. Tali fattori porteranno sicuramente ad un interessantissimo sviluppo navale. La Russia si sta già dotando di un nuovo tipo di nave rompighiaccio (modello Arc7) dalle enormi capacità di carico. Nella stessa direzione sta procedendo il governo cinese il quale solo due anni fa ha varato la prima nave rompighiaccio made in Cina la Xuelong e al momento è impegnata nello sviluppo di un modello a propulsione nucleare con possibili impieghi militari.
Secondo le dottrine economiche di Saint-Simon il progresso tecnologico, congiuntamente a quello industriale e a quello economico dovevano costituire le precondizioni per la prosperità di tutti, per cui l’apertura della rotta Artica avrebbe dovuto portare con se un incremento di benessere. Invece le forti contrapposizioni politiche ed economiche hanno prodotto scenari preoccupanti. Lo scorso settembre Cina e Russia hanno dato vita ad una delle più imponenti esercitazioni militari con oltre 300.000 soldati. La risposta della Nato non si è fatta attendere. Dopo circa sessanta giorni la Nato a largo della Norvegia ha dato il via alla più vasta esercitazioni militari degli ultimi vent’anni (Trident Juncture). Durante queste esercitazioni non sono mancati i momenti di tensione. È evidente che la Nato ha voluto rassicurare i propri alleati nord europei da un lato e dall’altro inviare un chiaro segnale alla Russia. Anche in questo caso le dottrine del secolo scorso sembrano inefficaci a decodificare la fluidità politica ed economica nel secolo della Blue Economy.
Secondo Keynes l’abbattimento dei dazi doganali e il libero scambio avrebbero avvicinato le nazioni ed allontanato le guerre. In realtà la realizzazione della BRI (con il raddoppio di Suez) prima e l’apertura della rotta Artica si configura come un unico sistema marittimo che racchiude l’intero continente euroasiatico coinvolgendo direttamente, tra l’altro, una parte considerevole di quello africano. Detenere il controllo di questo sistema significa mettere una grande ipoteca sul controllo politico, economico e commerciale del mondo. In più il consolidamento di tale struttura andrebbe a creare una considerevole riduzione dei flussi mercantili attraverso il canale di Panama perno del potere marittimo americano.
Non di meno anche nella dimensione artica si nota la mancanza di una vera politica estera europea. Sembra infatti del tutto evidente che se l’Europa vorrà esistere si dovrà dotare di quei uffici necessari e di quelle strutture indispensabili per sviluppare una propria politica estera comunitaria. Questa, vista i tanti fattori di accelerazione tecnologica, militare, commerciale e data la particolare fluidità internazionale, dovrebbe essere suddivisa in aree geografiche marine come quella mediterranea, atlantica e baltica. Passaggi indispensabili nel secolo della Blue Economy.
Alessandro Mazzetti