NOVEMBRE 2018 PAG. 64 - Custodi di luce: antropologia, narrazioni e rappresentazioni di uomini e fari
Michele Claudio D. Masciopinto – Ed. La nuova Mezzina
“Per i trasferimenti prima, loro (la Marina) davano una certa cifra solo se tu portavi quaranta quintali. Che stupidaggine! Io ci ho messo le pietre dentro, nelle casse, per fare peso, per avere una sciocchezza che te davano”. L’aneddoto raccontato da Silvero Sarandrea in uno della dozzina di dialoghi condotti con gli ultimi “guardiani del faro” italiani rimette in moto la narrazione di un passato perduto. Fa luce su pratiche dimenticate, comportamenti e “visioni della vita” che rappresentano uno degli assi portanti di una ricerca che punta a mettere in relazione “differenti sistemi di indagine”.
Con una costante dialettica tra luoghi, tracce documentali (registri, regolamenti, le biblioteche che si sono accumulate nei fari) e, soprattutto, le testimonianze orali di chi ha vissuto concretamente una stagione storica definitivamente al tramonto, indaga il faro – ormai assurto ad elemento dell’immaginario collettivo – come potenziale fulcro di ricostruzione della storia delle comunità marittime.
Un percorso alla ricerca di una rete fatta di “soggettività , reti sociali, valori e conflitti” condotto su un binario ben preciso: “un mestiere visto da chi l’ha vissuto, in grado produrre il racconto di un mondo”. Non alla ricerca della Verità ma di una specifica “umanità , senso della vita, valori morali, rapporto tra le generazioni”.
Protagonisti i fari, simbolo millenario del punto di approdo sicuro per chi affronta i pericoli del mare, luogo indefinito, a metà tra l’universo terrestre e quello marino. Un mondo fascinoso che paradossalmente ha visto crescere l’interesse generale nel momento in cui l’automatizzazione della segnalazione marittima ha segnato il declino della loro funzione tradizionale.
È all’incrocio di questo snodo che si dipanano i due piani su cui si articola la ricerca. Da una parte la ricostruzione, quasi in presa diretta, di un mondo lavorativo, fatto di pratiche, consuetudini, rapporto con il paesaggio, designato a sparire sotto l’onda dell’avanzata tecnologica; dall’altro il destino e i possibili utilizzi futuri dei fari, sempre più “disabitati, esposti all’erosione, alla salsedine e al trascorrere del tempo”.
Una domanda che vede i “faristi” pessimisti circa le prospettive del mestiere (“siamo stati messi un po’ in disparte dall’automazione, anche se rimaniamo sempre necessari per la pulizia, per l’attenzione a vetri, alle lenti, diciamo ai particolari”) ma, allo stesso tempo, ricoprire un nuovo ruolo. La figura del farista sta passando progressivamente “da un operatore tecnico che agisce sul faro a un narratore della storia del faro”. E questo perche “tutti i fari sono in grado di narrare storie che riguardano gli uomini e le relazioni tra loro e il mare, e ciò accade sia ascoltando le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la vita nel faro, sia ascoltando le impressioni di coloro che vi entrano per la prima volta”.
In che modo dunque preservare questo patrimonio di “costruzione patrimoniale”? Attraverso una “trasformazione attiva”, suggerisce l’autore. “Costruiti per segnalare la costa ai marinai, i fari segnalano oggigiorno il mare agli abitanti della terra”.
In un momento di entusiasmo ed esaltazione che vede nelle “sentinelle del mare”, presidi da tutelare e promuovere nei percorsi turistico-culturali non va sottovalutata dunque la necessità di una linea politica che si faccia carico della loro reale tutela e valorizzazione, andando oltre la mera patrimonializzazione dei luoghi. Costruendo, in sostanza, tracciati che includano non solo “la magnificenza dell’architettura o la salita sulla lanterna per ammirare lo splendore del paesaggio” ma anche la storia umana e tecnica che vi si è consumata.
“Come impronte tenaci dell’azione degli uomini sul limite che segna la separazione tra il regno del reale, la terra, e il regno del possibile, il mare, i fari sono diventati spazi di una memoria che hanno generato ma di cui sono diventati soggetti,” sottolinea Masciopinto. “Anche privati della legittimità tecnologica, essi non sono forme vuote, poiché la memoria degli uomini da loro consistenza, come il guardiano che li assiste e li conserva ancora in buono stato”.
“Per i trasferimenti prima, loro (la Marina) davano una certa cifra solo se tu portavi quaranta quintali. Che stupidaggine! Io ci ho messo le pietre dentro, nelle casse, per fare peso, per avere una sciocchezza che te davano”. L’aneddoto raccontato da Silvero Sarandrea in uno della dozzina di dialoghi condotti con gli ultimi “guardiani del faro” italiani rimette in moto la narrazione di un passato perduto. Fa luce su pratiche dimenticate, comportamenti e “visioni della vita” che rappresentano uno degli assi portanti di una ricerca che punta a mettere in relazione “differenti sistemi di indagine”.
Con una costante dialettica tra luoghi, tracce documentali (registri, regolamenti, le biblioteche che si sono accumulate nei fari) e, soprattutto, le testimonianze orali di chi ha vissuto concretamente una stagione storica definitivamente al tramonto, indaga il faro – ormai assurto ad elemento dell’immaginario collettivo – come potenziale fulcro di ricostruzione della storia delle comunità marittime.
Un percorso alla ricerca di una rete fatta di “soggettività , reti sociali, valori e conflitti” condotto su un binario ben preciso: “un mestiere visto da chi l’ha vissuto, in grado produrre il racconto di un mondo”. Non alla ricerca della Verità ma di una specifica “umanità , senso della vita, valori morali, rapporto tra le generazioni”.
Protagonisti i fari, simbolo millenario del punto di approdo sicuro per chi affronta i pericoli del mare, luogo indefinito, a metà tra l’universo terrestre e quello marino. Un mondo fascinoso che paradossalmente ha visto crescere l’interesse generale nel momento in cui l’automatizzazione della segnalazione marittima ha segnato il declino della loro funzione tradizionale.
È all’incrocio di questo snodo che si dipanano i due piani su cui si articola la ricerca. Da una parte la ricostruzione, quasi in presa diretta, di un mondo lavorativo, fatto di pratiche, consuetudini, rapporto con il paesaggio, designato a sparire sotto l’onda dell’avanzata tecnologica; dall’altro il destino e i possibili utilizzi futuri dei fari, sempre più “disabitati, esposti all’erosione, alla salsedine e al trascorrere del tempo”.
Una domanda che vede i “faristi” pessimisti circa le prospettive del mestiere (“siamo stati messi un po’ in disparte dall’automazione, anche se rimaniamo sempre necessari per la pulizia, per l’attenzione a vetri, alle lenti, diciamo ai particolari”) ma, allo stesso tempo, ricoprire un nuovo ruolo. La figura del farista sta passando progressivamente “da un operatore tecnico che agisce sul faro a un narratore della storia del faro”. E questo perche “tutti i fari sono in grado di narrare storie che riguardano gli uomini e le relazioni tra loro e il mare, e ciò accade sia ascoltando le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la vita nel faro, sia ascoltando le impressioni di coloro che vi entrano per la prima volta”.
In che modo dunque preservare questo patrimonio di “costruzione patrimoniale”? Attraverso una “trasformazione attiva”, suggerisce l’autore. “Costruiti per segnalare la costa ai marinai, i fari segnalano oggigiorno il mare agli abitanti della terra”.
In un momento di entusiasmo ed esaltazione che vede nelle “sentinelle del mare”, presidi da tutelare e promuovere nei percorsi turistico-culturali non va sottovalutata dunque la necessità di una linea politica che si faccia carico della loro reale tutela e valorizzazione, andando oltre la mera patrimonializzazione dei luoghi. Costruendo, in sostanza, tracciati che includano non solo “la magnificenza dell’architettura o la salita sulla lanterna per ammirare lo splendore del paesaggio” ma anche la storia umana e tecnica che vi si è consumata.
“Come impronte tenaci dell’azione degli uomini sul limite che segna la separazione tra il regno del reale, la terra, e il regno del possibile, il mare, i fari sono diventati spazi di una memoria che hanno generato ma di cui sono diventati soggetti,” sottolinea Masciopinto. “Anche privati della legittimità tecnologica, essi non sono forme vuote, poiché la memoria degli uomini da loro consistenza, come il guardiano che li assiste e li conserva ancora in buono stato”.