SETTEMBRE2018 PAG. 21 - Zes Campania, la burocrazia (in)efficiente vince ancora
“La società moderna tende ad una configurazione estremamente complicata che gravita su un centro vuoto ed è in questo centro vuoto che si addensano tutti i poteri e i valori”. Oltre quarant’anni fa Italo Calvino individuava lucidamente uno dei nuclei critici della democrazia contemporanea. Anticipando nella distanza tra il decidere e il fare, tra la deliberazione e la sua applicazione, un possibile elemento patologico del sistema occidentale, in generale, e italiano, in particolare. Uno spazio cresciuto a dismisura a cavallo tra i due secoli, occupato inesorabilmente da attori (burocrazia e interessi particolari) che hanno esercitato, e tuttora esercitano, un esorbitante ruolo di interdizione. Con il risultato di far girare a vuoto, sempre più spesso, il potere. In una situazione di stallo che registra nella continua legiferazione una progressiva perdita di presa sulla realtà e nella personalizzazione dei programmi politici e nella sostituzione dell’azione alla sua narrazione – il famigerato storytelling – una risposta fallimentare alla necessità di una visione strategica dei problemi.
Nel microcosmo dei trasporti il perverso meccanismo dell’abdicazione ai micro-poteri che innervano l’apparato amministrativo è emerso con chiarezza nella defatigante vicenda dei dragaggi del porto di Napoli (peraltro in replica in questi giorni, e con le medesime modalità , nello scalo di Salerno). Un percorso accidentato tra regolamenti, autorizzazioni, prescrizioni, verifiche sulle prescrizioni: un balletto di rimandi in cui ogni ufficio, ente, ministero richiede l’obolo della sua competenza parziale e compartimentata, rigorosamente esente dalla responsabilità sull’esito finale dell’iter, con buona pace per l’interesse pubblico. Gioco dell’oca, quando non processo kafkiano, che secondo forme proprie (infinite le incarnazioni dell’universo burocratico), si sta ripresentando anche con il ritardo, ormai sospetto, accumulato nell’iter di istituzione delle ZES.
Pietro Spirito, presidente dell’AdSP del Mar Tirreno Centrale, ha denunciato nel merito, pubblicamente, “l’infernale macchina amministrativa che strangola tutti i tentativi di modificare la cancrena burocratica nella quale siamo paralizzati ormai da decenni”. Tratteggiando, di fatto, la microfisica del (non) potere italiano all’opera. D’altronde basterebbe mettere in fila tutti i passaggi previsti dall’ordinamento – dal decreto del governo che prevede l’istituzione delle Zone economiche speciali (giugno 2017) alla conversione in legge (agosto 2017) che prescrive, a sua volta, tre decreti del presidente del consiglio, emanati di concerto con altri ministeri, e una serie di deliberazioni delle giunte regionali – per intuire le infinite opportunità da parte dei professionisti dell’interdizione di poter esercitare le proprie prerogative. E puntualmente l’iter, che considerando gli standard italiani stava viaggiando anche ad un ritmo abbastanza sostenuto, si è inspiegabilmente fermato su un binario morto.
Dopo i due decreti di definizione dello strumento e di istituzione delle ZES della Campania e della Calabria (febbraio e maggio 2017) si è persa definitivamente traccia della norma relativa alle semplificazioni amministrative e burocratiche di cui potranno godere le aziende che si insediano nelle ZES. Così come nessun segnale arriva da Presidenza del Consiglio e MIT sulla nomina dei rispettivi rappresentanti in seno al Comitato di indirizzo che dovrebbe coordinare lo sviluppo delle zone. Distrazione da altre priorità politiche? Interessi particolari? Semplice inefficienza amministrativa? Fatto sta che rispetto al risultato paradossale che vede uno strumento di sburocratizzazione applicato con successo in tutto il mondo bloccato proprio dalla burocrazia che dovrebbe sconfiggere, è forse arrivato il momento di una riflessione più approfondita sull’insorgenza dei vuoti del potere. “Per gravitare su un centro pneumatico ci vorrebbe una società più solida,” spiegava sempre Calvino in quel lontanissimo 1974. Ma forse già non basta più.
Giovanni Grande