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LUGLIO 2018 PAG 58 - Il salvataggio dei naufraghi e il diritto marittimo

Il costante aumento del fenomeno dei flussi migratori via mare, nel Mediterraneo, ha fatto emergere l’esigenza di adattare l’impianto messo in piedi dalla normativa convenzionale uniforme in materia di Governance nell’ambito delle operazioni di salvataggio della vita umana in mare con la conseguenza di avviare forme di cooperazione nel settore dell’accoglienza e, all’occorrenza, contrastare il traffico ed il transito illegale di migranti via mare.
Compito del presente articolo è di tracciare il quadro normativo attuale di riferimento e non mi soffermerò sull’operazione varata dalla Marina Militare Italiana Mare Nostrum e sul regolamento che ha istituito “FRONTEX”, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea.

L’annunciata misura governativa della chiusura dei porti alle navi umanitarie armate da ONG per la ricerca e soccorso ha posto alla ribalta nazionale ed internazionale l’annosa questione degli obblighi di salvataggio imposti da ciascuno Stato contraente, ai comandanti delle navi mercantili e alle navi pubbliche di bandiera dalla Convenzione SOLAS (acronimo di Safety of Life at Sea) del 1974, dalla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo nel 1979 (SAR - Search and Rescue) e della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS - United Nations Convention on the Law of the Sea ) approvata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, diretta emanazione dei principi consuetudinari di solidarietà marinara messi in campo con la Convenzione internazionale per l’unificazione di alcune regole in materia di collisioni fra navi adottata a Bruxelles nel 1910. L’art. 8 di quest’ultima stabilisce infatti che “A seguito una collisione fra navi, il capitano di ciascuna di esse è tenuto, in quanto lo possa fare senza serio pericolo per la sua nave, il suo equipaggio e i suoi passeggeri, a prestare assistenza all’altro bastimento, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri”. La Convenzione UNCLOS (ratificata dall’Italia nel 1994) stabilisce all’articolo 98 che “Ogni Stato impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento”.

Le disposizioni UNCLOS vanno integrate con la Convenzione firmata a Londra il 28 aprile 1989 sul Soccorso in Mare (Salvage) che, all’art. 10, così dispone: “Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo”. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali. La Salvage ha riformato la corrispondente disciplina del nostro Codice della Navigazione di cui restano in vigore gli artt. 69 e 70 dello sul “soccorso a navi in pericolo e a naufraghi” e su “impiego di navi per il soccorso”. Vi si legge “L’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso, e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire. Quando l’autorità marittima non può tempestivamente intervenire, i primi provvedimenti necessari sono presi dall’autorità comunale” e “L’autorità marittima o, in mancanza, quella comunale possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi”.
Da tale framework normativo emerge, dunque, che il suddetto principio sia posto tanto in capo ai singoli comandanti di navi, sia in capo agli stessi Stati. Sotto il primo profilo, infatti, a mente dell’art. 98.1 della UNCLOS e del Cap. V, Regola 33.1 della SOLAS, il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere con tutta rapidità all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione.
Per quel che concerne la ricerca ed il soccorso dei naufraghi, è stata adottata (ma per tutelare la sicurezza della navigazione mercantile, quindi con funzione diversa da quella per cui ora si presta, di regolamentazione dell’emergenza migranti) la Convenzione SAR siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985 (a cui l’Italia ha aderito con D.P.R. 28 settembre 1994, n. 662 concernente regolamento di attuazione della legge 3 aprile 1989, n. 147). In virtù di tale Convenzione tutti gli Stati costieri del Mediterraneo sono tenuti a mantenere un programma di assistenza e salvataggio e devono coordinarsi tra di loro.

Per l’Italia, il responsabile per l’applicazione della Convenzione è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, mentre l’organizzazione centrale è affidata al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto (MARICOGECAP) che assume le funzioni di IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) e alle relative strutture periferiche. La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale e sulla responsabilità collettiva degli Stati cooperanti (paragrafo 6.16).  Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti e la stessa Convenzione non precisa quali siano i limiti spaziali limitandosi a statuire che occorra un rapporto tra estensione zone SAR e capacità dei servizi SAR.

Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Nel recente passato sono stati approvati dall’IMO alcuni emendamenti alla Convenzione SOLAS (resa esecutiva in Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313) ed alla citata Convenzione SAR adottati nel maggio del 2004 ed entrati in vigore il 1 luglio 2006. La SOLAS aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi di comunicazione e coordinamento in situazione di distress (sofferenza) in mare nelle loro “rispettive aree di responsabilità” e “per il salvataggio di persone in pericolo … intorno alle loro coste” (Capitolo V, Regola 7). In particolare nei punti da 6.12 a 6.18 della risoluzione del Maritime Safety Committee (MSC) 167 (78) adottata il 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea) si stabilisce che lo Stato responsabile della zona SAR in cui è avvenuto il salvataggio di persone in pericolo sia tenuto a fornire, al più presto la disponibilità di un luogo di sicurezza (“place of safety” come definito dalla Parte XI articolo 4.1.1 della SOLAS) dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e la sicurezza dei sopravvissuti, ovvero la loro vita, non è più minacciata; le necessità umane primarie come cibo, alloggio e cure mediche possono essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.
In conformità al principio 6.14, anche la nave che ha portato assistenza può essere considerata un luogo sicuro, ma solo a titolo provvisorio. Il compito di provvedere al place of safety è a carico del governo responsabile per la Regione (paragrafo 6.7 SAR).

Gli emendamenti in questione hanno lo scopo di assicurare sia l’obbligo dei comandanti delle navi di prestare assistenza sia l’obbligo degli Stati aderenti alla Convenzione di cooperare nelle situazioni di soccorso in mare. Lo stabilire la responsabilità dello Stato costiero nel portare a termine l’operazione di soccorso non crea comunque un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”. Lo Stato costiero ha un obbligo “residuale” di autorizzazione all’ingresso e allo sbarco che trova applicazione unicamente quando non è stato possibile individuare nessun altro luogo sicuro. Il problema dell’individuazione del porto in cui fare sbarcare il naufrago evidenzia la principale lacuna dei precetti normativi summenzionati ossia l’assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo. Il diritto convenzionale uniforme è lacunoso in materia perché né la SOLAS nè la SAR sono risolutive sulla questione delle competenze in merito all’accoglienza nei porti delle persone soccorse. La SAR è molto precisa sulle responsabilità delle autorità di coordinamento riguardo all’individuazione del porto sicuro per lo sbarco, non è altrettanto chiara invece sul fatto che debba trattarsi anche del porto più vicino.
Il paragrafo 3.1.6 SAR sancisce che può parlarsi di autorizzazione all’ingresso in acque territoriali o sul territorio dello Stato solo con riferimento alla cooperazione tra mezzi di soccorso di diversi Paesi e, in relazione al porto di sbarco, il centro di soccorso dovrebbe solo provvedere in “cooperazione con altri centri” ad identificare il luogo di approdo più appropriato.
Il paragrafo 3.1.9 SAR sancisce che l’obbligo dello Stato responsabile della zona in cui viene prestato il soccorso non è necessariamente quello di accogliere le navi nei propri porti quanto di coordinare le operazioni e cooperare affinchè la nave che ha garantito il primo soccorso possa approdare in un luogo sicuro dove far sbarcare momentaneamente i passeggeri.
In conclusione tocca allo Stato competente per la zona SAR dove è avvenuto il soccorso la responsabilità principale nell’identificare il porto di sbarco. Tale elemento, però, non è sufficiente ad individuare tale Stato come unico destinatario dell’obbligo di accoglienza in virtù dei doveri di “condivisione” in capo agli Stati.

Criterio adottato dalla prassi per individuare il porto più vicino e sbarcare senza commettere  illecito è la situazione di “vessel in distress” (Annesso al capitolo 1, paragrafo 1.3.11 della Convenzione SAR) ossia quando, a fronte dello stallo delle trattative volte a determinare il porto di sbarco, la situazione di emergenza si aggravi al punto tale da mettere in pericolo l’incolumità di equipaggio e passeggeri o a bordo di una nave siano vicine all’esaurimento le riserve d’acqua e di cibo a bordo e a rischio le condizioni di salute dei naufraghi. Il problema è che molti paesi rivieraschi per ragioni di natura politica o geografica non riconoscono l’operatività di queste Convenzioni internazionali.
L’Italia è stato il primo Paese del Mediterraneo a delimitare la propria zona di competenza SAR con i Paesi frontisti attraverso specifici “Memorandum of understanding”, sulla cooperazione nelle operazioni di ricerca e soccorso. Tali zone SAR sono state comunicate nel corso dell’apposita Conferenza IMO di Valencia del 1995 ed accettate senza opposizioni dagli altri Stati frontisti, con l’eccezione di Malta che reclama unilateralmente una vastissima zona SAR, coincidente con la propria “Flight information Region” (FIR), il tutto in assenza di norme internazionali che stabiliscano la coincidenza tra zone SAR e zone FIR. L’enorme zona maltese, coincidente con la sovrastante FIR, si sovrappone con quella italiana in più aree, compresa quella delle acque territoriale delle Isole Pelagie e con la nozione di place of safety in cui trasportare i naufraghi salvati nella propria SAR. Malta sostiene essere non La Valletta ma Lampedusa, se più vicina al luogo del soccorso. Il paradosso di tale situazione è rappresentato dal fatto che Malta non dispone di un naviglio adeguato al fine di gestire la vasta e pretesa zona SAR, imponendo spesso l’intervento di soccorso ai pattugliatori italiani, con successivo trasporto dei naufraghi salvati in Italia. Per quanto concerne la Libia la situazione si presenta invece in termini radicalmente diversi in quanto oltre a essere attualmente un Paese diviso internamente, non ha mai proceduto in passato a istituzionalizzare i propri servizi di assistenza SAR.

La prassi applicativa evidenzia come ad un’attività di soccorso posta in essere in alto mare dalle navi private di uno Stato segua, non di rado, il rifiuto dello Stato più prossimo geograficamente o dello Stato responsabile per il soccorso e salvataggio di accogliere sul proprio territorio i naufraghi. E’ vero infatti che, oltre a negare l’ingresso nel mare territoriale, lo Stato costiero può rifiutare l’ingresso nei propri porti conformemente all’art. 25.2 UNCLOS, nel quale è specificato che questo “ha anche il diritto di adottare le misure necessarie per prevenire ogni violazione delle condizioni alle quali è subordinata l’ammissione di tali navi nelle acque interne o a tali scali”.

In merito alla possibilità della chiusura dei porti l’ormai risalente Convenzione di Ginevra sul regime internazionale dei porti, del 1923, già aveva previsto (art. 16), seppur da un punto di vista commerciale, la possibilità di derogare al principio generale di libertà di accesso delle navi straniere agli scali, ancorché in casi eccezionali e per avvenimenti gravi, riguardanti la sicurezza del Paese (o i suoi interessi vitali).

La Convenzione UNCLOS definisce alcuni concetti fondamentali, a partire dai limiti marittimi che si estendono a partire dalla costa e che segnano, con l’allontanarsi dalla stessa, il progressivo venir meno della sovranità statale. Anche nella fascia più vicina alla costa, quella delle cosiddette “acque territoriali”, esiste un diritto di passaggio inoffensivo (art. 17) da parte delle navi straniere, “sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per prendere il largo provenendo da queste”, e purché il passaggio sia “continuo e rapido”. Quanto alla possibilità da parte dello Stato costiero di impedire l’accesso di una nave nelle acque territoriali qualora ci sia il sospetto che l’ingresso della medesima possa violare la sicurezza nazionale l’art. 19, comma 2, UNCLOS stabilisce che il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. La lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.
Nel nostro ordinamento il Codice della Navigazione stabilisce, all’articolo 83, che il Ministro dei Trasporti possa vietare, “per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale”.

Sotto il secondo profilo, invece, l’art. 98.2 della UNCLOS prevede l’obbligo, per gli Stati Parte, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali.

Il combinato disposto della normativa convenzionale uniforme e interna chiarisce che non esiste un diritto soggettivo di ingresso nel porto dello Stato costiero che, pertanto, gode in tale di una sovranità piena il cui esercizio non può subire limitazioni, se non espressamente autorizzate dallo Stato stesso.
Ebbene, di fronte alle dimensioni ormai assunte dal fenomeno migratorio in Italia, e alla situazione emergenziale che ne è scaturita, si può astrattamente ritenere che ricorrano le condizioni di sicurezza nazionale, idonee a giustificare le misure adottate dal Governo. Ovviamente, resterebbero fermi, per lo Stato italiano (come per qualunque altro Stato contraente), gli obblighi di soccorso che discendono, in particolare, dalle Convenzioni SAR e SOLAS. Ma il soccorso in mare, giova sottolinearlo, si conclude solo quando la nave raggiunge un “porto sicuro” (che non è necessariamente quello più vicino, dovendo essere anche in grado di garantire ai naufraghi un’accoglienza umanitaria).
Quanto alle navi delle ONG, i limiti d’azione nel mare cosiddetto territoriale (ossia entro le 12 miglia) sono quelli esplicitati anche dall’art. 17 della Convenzione UNCLOS, sintetizzabili nel diritto di passaggio inoffensivo, ossia quel passaggio continuo e rapido inidoneo ad arrecare minaccia alla pace e alla sicurezza dello Stato costiero.

Alla luce dell’excursus normativo tracciato la salvaguardia della vita dei naufraghi va perciò garantita a patto che tale dovere sia assolto da tutti gli Stati in cui sono situati i “porti più sicuri” in “cooperazione”. Allora, rebus sic stantibus, appare del tutto evidente che il quadro normativo di riferimento lega, non poco, le mani agli Stati interessati al fenomeno de quo e soprattutto, per quanto consenta, seppur in astratto, l’adozione di azioni di respingimento dei flussi migratori via mare, richiede che le stesse non siano generalizzate, bensì ponderate caso per caso, attraverso un non sempre facile bilanciamento ex ante tra le esigenze umanitarie, da una parte, e quelle di contrasto del fenomeno migratorio via mare, dall’altra.
A parere di chi scrive, nel lungo periodo, infatti, occorre che gli Stati trovino un punto di incontro e che l’Unione europea adotti misure più efficaci per supportarli, in attuazione del principio di solidarietà. 
Il risultato è garantire equità nell’assunzione di precise responsabilità che non possono derivare dal puro e semplice contesto geografico ma da azioni coordinate degli Stati sotto l’egida dell’UE.
Avv. Alfonso Mignone
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