Marzo 2018 Pag.54 - Legislazione e crescita economica
Gli effetti del nuovo codice degli appalti sullo sviluppo
produttivo del paese
Il 2017 ha rappresentato per il comparto edile un anno
ulteriormente difficile. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio
congiunturale dell’ANCE, infatti, si è verificato nel settore un nuovo calo dei
livelli produttivi (-0,1%), con un perdita complessiva dall’inizio della crisi
pari al 36,5%.
Tale andamento, purtroppo, si è verificato nonostante le
numerose risorse stanziate per il settore già nella Legge di Bilancio del 2017
e ciò a causa soprattutto dell’incidenza negativa del comparto delle opere pubbliche
che non riesce a superare l’apporto positivo offerto dal rafforzamento della
ripresa del settore non residenziale privato e dal rallentamento della caduta
della nuova edilizia abitativa.
Dall’analisi congiunta di tali dati emerge, dunque,
chiaramente come per rilanciare l’intero settore, che si stima contribuisca
alla crescita della ricchezza italiana per circa mezzo punto percentuale, lo
stanziamento di ingenti investimenti pubblici sia condizione necessaria, ma non
sufficiente.
Le misure economiche predisposte dagli ultimi Governi,
infatti, non hanno decisamente prodotto gli effetti sperati, a causa
dell’incapacità di tradurre in cantieri le risorse disponibili e
dell’inefficienza nelle procedure di spesa da parte della Pubblica
Amministrazione.
Secondo l’analisi dell’ANCE, infatti, al fallimento della
clausola europea per gli investimenti, che avrebbe dovuto registrare nel 2016
un aumento degli investimenti pari a 5 miliardi di euro (e ne ha di fatto
invece causato una riduzione di 2 miliardi) si sono aggiunte performance di
spesa degli Enti territoriali molto deludenti e lontane dai risultati sperati.
In particolare, la spesa per gli investimenti continua a
ridursi, a dimostrazione di come soprattutto i Comuni non riescano a sfruttare
le opportunità di rilancio degli investimenti derivanti, fra l’altro anche
dalle modifiche delle regole di finanza pubblica. La cartina di tornasole di un
simile andamento è lo stesso trend dei bandi di gara per lavori pubblici che
nel 2016 ha visto un forte ridimensionamento, con flessioni tendenziali del
2,4% nel numero di pubblicazioni e del 18,4% in valore.
E’ dunque in altra direzione che occorre (parallelamente)
concentrare gli sforzi delle istituzioni e degli stakeholders, al fine di
consentire a tale comparto una crescita stabile e strutturata.
Un settore, che, vale la pena evidenziarlo, in termini di
investimenti, continua a offrire un contributo rilevante (circa l’8%) alla
composizione del PIL italiano, oltre alla sua lunga e complessa filiera che è
già di per sé in grado di generare una fortissima ricaduta sull’intera economia
nazionale, senza contare, peraltro, la sua essenziale funzione sociale.
L’ottimismo per la verità non sembra mancare. Per il 2018 la
stessa ANCE prevede una crescita del 2,4% degli investimenti totali in
costruzione, mentre solo sul fronte delle opere pubbliche, l’associazione si
aspetta una crescita degli investimenti del 2,5%, sottolineando come il
risultato tenga conto degli stanziamenti messi in campo nella precedente
legislatura, dall’avvio della ricostruzione delle zone terremotate e
dall’approvazione a fine 2017 del contratto di programma ANAS.
Ma, invero, più che previsioni appaiono speranze, che ancora
una volta si fondano sul presupposto di ottenere una crescita attraverso il
solo stanziamento delle risorse economiche. E’ dunque lo stesso metodo di
analisi previsionale che resta viziato ab origine. Il contesto legislativo e
istituzionale, infatti, ad oggi è immutato rispetto agli anni precedenti e,
anzi, è forse ancora più complesso e complicato. Non si comprende pertanto
come, alla luce dello status quo, ci si possano attendere risultati migliori
rispetto al passato.
Per far sì che finalmente le risorse economiche si
trasformino in cantieri e, dunque, in sviluppo economico, è quindi
prioritariamente necessario che cambi anzitutto il contesto
giuridico-legislativo di riferimento. È necessario cioè che mutino e si aprano
i “canali” attraverso cui le risorse stanziate giungono alle Stazioni
appaltanti e, da quest’ultime, al mercato.
E, probabilmente, prima ancora, è necessario che cambi la
stessa cultura di governo, non più fondata su interventi emergenziali, ma su
riforme strutturali e di ampio respiro che consentano nel medio periodo
l’impiego efficiente delle risorse pubbliche e, quindi, una crescita stabile e
duratura. E occorre ripartire proprio dall’attuare serie e nuove politiche (e
tecniche) legislative.
Del resto, non si scorgono alternative, stante l’attuale
fallimento delle politiche economiche post-crisi finalizzate al rilancio dei
lavori pubblici in Italia mediante la sola iniezione di risorse, che, in oltre
10 anni di crisi economica, hanno causato un gap di investimenti in
infrastrutture pari a circa 60 miliardi di euro.
A dover cambiare radicalmente, dunque, sembra in primis
proprio una visione di fondo delle politiche attuate dagli ultimi Governi, la
cui assenza ha portato, ad esempio, alla frettolosa entrata in vigore del nuovo
Codice degli appalti, causando un vero e proprio disorientamento delle Stazioni
appaltanti, al punto che, secondo i dati ANCE, solo il numero di gare bandite
dai comuni ha segnato a giugno 2016 un calo del 60,3%. E il trend del 2017 è
purtroppo sulla stessa linea.
Del resto, senza la previsione di un periodo transitorio per
l’entrata in vigore della nuova disciplina come avrebbe potuto attendersi un
differente risultato? Con quali risorse e professionalità interne le stazioni
appaltanti avrebbero realisticamente potuto attuare l’immediata pubblicazione
di bandi che pongono a base di gara i dettagliatissimi progetti esecutivi,
anziché i più generici progetti definitivi? Altro non poteva attendersi, come
in effetti è avvenuto, la (quasi) completa paralisi degli Uffici gare delle
Amministrazioni pubbliche (soprattutto locali), “preoccupate” vieppiù anche dell’intervento
di possibili rilievi istruttori dell’ANAC, sicuramente più numerosi e chiari,
quanto ad efficacia vincolante e sanzionatoria, delle stesse Linee guida
emanate in materia dall’Autorità !
E un ulteriore caos applicativo creerà certamente, da ultimo,
anche il recentissimo decreto del Ministro delle infrastrutture sul c.d. BIM
(Building Information Modeling), in tema di digitalizzazione degli appalti, in
base al quale entro il primo gennaio 2019 sarà obbligatoria l’adozione della
modalità elettronica di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture in
relazione alle opere sopra la soglia dei 100 milioni di euro e via via
gradualmente fino alla totale copertura di tutte le opere pubbliche entro il
primo gennaio 2025.
Ma come può realizzarsi ciò concretamente, stante l’attuale
dotazione e formazione del personale interno delle stazioni appaltanti? Come è
possibile stabilire che entro un anno o poco più, anche solo per poche opere,
si possa arrivare alla predisposizione di capitolati in formato totalmente
digitale, con tutto quello che ciò comporterà in termini anche di cambio di
cultura e mentalità dei funzionari pubblici in relazione alla fase di
svolgimento della gara e poi di esecuzione del contratto?
È chiaro come anche in questo caso, il legislatore abbia
peccato di irrealismo e frettolosità .
Fenomeno di per sé non così grave, se non fosse per la
confusione e la disaffezione istituzionale che ciò ha generato e sta
ingenerando negli operatori del settore, nonché per i rilevantissimi danni
economici causati, finanche in termini di molti posti di lavori persi e oramai
difficilmente recuperabili.
Senza considerare, in tale prospettiva di analisi, che dei
19 decreti ministeriali attuativi delle disposizioni codicistiche ne risultano
attualmente promulgati soltanto 4, vigenti, peraltro, in una sorta di “selva
legislativa” ove l’operatore deve sostanzialmente andare “a caccia” della norma
applicabile al caso concreto, districandosi fra disposizioni primarie
inattuabili e linee guida dell’ANAC recepite o in attesa del recepimento con
apposito decreto, linee guida ANAC sottoposte a pubblica consultazione e non
vincolanti, ma comunque indicative a fini interpretativi!
E senza voler ulteriormente considerare, lo stesso confuso
(ed errato) contenuto normativo di alcuni decreti ministeriali del MIT, che -
come nel caso del decreto sul BIM sopra citato (cfr. art. 3) – contengono non
tanto e non solo disposizioni attuative, tecniche e di dettaglio, ma
addirittura finanche norme “programmatiche”, come quelle sulla necessaria
previa formazione digitale del personale, o sulla necessaria adozione dal parte
delle Amministrazioni di “un atto organizzativo che espliciti il processo di
controllo e gestione, i gestori dei dati e la gestione dei conflitti”. Più che
un decreto ministeriale si direbbe un decreto legislativo!
Un quadro giuridico di riferimento, dunque, complessivamente
assolutamente caotico, nel quale le Stazioni appaltanti si sono mosse (e si
muoveranno) come hanno potuto, e, spesso, restando inerti anche solo per la
“paura di sbagliare”, in assenza di un unico regolamento attuativo del Codice
appalti e dei relativi decreti ministeriali e con il solo ausilio delle Linee
guida (o best practies?) dell’ANAC e della giurisprudenza.
Cui prodest?
Certamente, come visto, né alle pubbliche amministrazioni,
né alle imprese. Forse, dunque, nel breve periodo, solo allo stesso Legislatore
della riforma, che contro ogni ragionevole prudenza, ha optato miopemente per
l’immediata entrata in vigore del Codice e per l’adozione di un impianto e di
una tecnica legislativa complessivamente perfino in contrasto con la granitica
dottrina costituzionale in tema di “gerarchia delle fonti” e assolutamente
svincolata dalla quotidiana e concreta “vita amministrativa” delle stazioni appaltanti.
Chiari esempi, insomma, di una sorta di
“spettacolarizzazione legislativa” o di “legislazione propaganda”, di un modo
di legiferare che si limita alla mera enunciazione di principi, senza poi
prevederne al contempo i relativi strumenti attuativi. E con ciò facendo,
bloccando di fatto la redditività degli investimenti pubblici messi in campo
per il rilancio del settore. In un quadro giuridico incerto, del resto, non può
che crearsi uno sviluppo economico altrettanto “incerto” e comunque rallentato.
Ecco perché sarà quanto mai necessario in questa nuova
legislatura, una rinnovata cultura del legiferare, che muova anzitutto dalla
centralità del ruolo del Parlamento senza demandarne la potestà legislativa ad
Autorità amministrative che, in quanto tali, non possono supplire nel tempo
alla “temporanea” inattuabilità di talune norme primarie.
Occorrerà dunque limitare la stessa tecnica del c.d.
“rinvio”, non essendo possibile una vincolatività normativa “a due velocità ”,
che avrebbe ancora una volta come unico effetto solo quello propagandistico, ma
non certo quello di creare un quadro giuridico di riferimento certo e, dunque,
di rilancio e sviluppo economico.
Saranno necessarie, insomma, nuove urgenti politiche
legislative che sappiano essere al servizio di nuove politiche economiche
“espansive”, che, così come ha dimostrato il caso del comparto edile in
relazione alle nuove previsioni del Codice appalti, da sole, con queste
modalità , non possono essere sufficienti, risultando anzi addirittura
controproducenti al sistema nel suo complesso.
Se l’attività del nuovo Parlamento si muoverà in tale
direzione, prendendo atto da un lato delle condizioni reali di ciò che si
intende disciplinare e, dall’altro, che ciò che si impone a livello di
normazione primaria deve fin da subito
poter essere chiaramente attuato dai soggetti destinatari delle norme
(sia perché ne sono individuati contestualmente gli strumenti attuativi, sia
perché il personale pubblico è stato all’uopo formato, sia perché è possibile
individuare chiaramente la norma applicabile al caso concreto), le stesse
risorse pubbliche stanziate saranno valorizzate al meglio e si consentirà così
che le previsioni di crescita non rappresentino più solo speranze, ma solide e
concrete prospettive di crescita.
Andrea Napoleone
Avvocato e Dottore di Ricerca in Diritto
Amministrativo